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Appello Alle facoltà e alle scuole in mobilitazione, alle studentesse e agli studenti di ogni ordine e grado, ai dottorandi, ai ricercatori, ai precari, ai docenti e alla città "Noi la crisi non la paghiamo", questo è lo slogan con cui poche settimane fa abbiamo iniziato le mobilitazioni all’interno dell’università e della scuola. Uno slogan semplice, ma nello stesso tempo diretto: la crisi globale è crisi del capitalismo stesso, della speculazione finanziaria e immobiliare, di un sistema senza regole né diritti, di manager e società senza scrupoli; questa crisi non può ricadere sulle spalle della formazione, dalla scuola all’università, della sanità, dei contribuenti in genere. Lo slogan è diventato famoso, correndo veloce di bocca in bocca, di città in città. Dagli studenti ai precari, dal mondo del lavoro a quello della ricerca, nessuno vuole pagare la crisi, nessuno vuole socializzare le perdite, laddove la ricchezza è stata per anni distribuita tra pochi, pochissimi. Sono ormai troppi anni che è stato avviato un processo di privatizzazione dell’istruzione pubblica, portato avanti sia dai governi di centro-destra che di centro-sinistra. In questi giorni, proseguendo lungo questi passi, il governo ha dichiarato di voler aumentare i sostegni economici alle banche e di voler fare dello stato e della spesa pubblica garanti in ultima istanza per i prestiti alle imprese: in una parola, tagli alla formazione, meno risorse per gli studenti, tagli alla sanità, ma soldi alle imprese, alle banche, ai privati e alle missioni militari. Ci chiediamo allora dove si trova la violenza, con la quale si cerca di strumentalizzare questo movimento? E’ violenta la nostra protesta o un governo che impone la legge 133 e il decreto Gelmini, in barba a qualsiasi discussione parlamentare? E’ violento il dissenso o chi intende soffocarlo con la polizia? E’ violento chi si mobilita in difesa dell’università e della scuola pubblica o chi intende dismetterle per favorire gli interessi economici di pochi? La violenza sta dalla parte del governo Berlusconi, dall’altra parte, nelle facoltà o nelle scuole occupate, c’è la gioia e l’indignazione di chi lotta per il proprio futuro, di chi non accetta di essere messo all’angolo o costretto al silenzio, di chi vuole essere libero. Ci è stato detto che sappiamo soltanto dire no, che non abbiamo proposte. Niente di più falso: la nostra mobilitazione, le lezioni in piazza e le assemblee di questi giorni stanno costruendo un’istruzione fatta di conoscenza, di socialità, di sapere ma anche di informazione e di consapevolezza. Studiare è per noi fondamentale, proprio per questo riteniamo indispensabili le proteste: estendere la partecipazione a tutta la cittadinanza per poter far vivere l’università e la scuola, dissentire per poter continuare a studiare o fare ricerca in un sistema pubblico e libero dalle speculazioni finanziarie. Molte cose vanno cambiate, ma una cosa è certa, il cambiamento non passa per il de-finanziamento. Cambiare significa aumentare le risorse, sostenere la ricerca, qualificare i processi formativi, garantire la mobilità (dallo studio alla ricerca, dalla ricerca alla docenza) e mettere fine alla “baronia” che determina rapporti sociali e professionali. Il de-finanziamento, invece, ha un solo scopo: trasformare l’università in fondazioni private, decretare la fine dell’università pubblica e ristrutturare la scuola al servizio del pensiero unico. Il disegno è chiaro, anche gli strumenti: la legge 133 è stata approvata nel mese d’agosto, di fronte al dissenso di decine di migliaia di studenti si invoca l’intervento della polizia. Questo governo vuole distruggere la democrazia, attraverso la paura, attraverso il terrore. È nostra intenzione, piuttosto, far retrocedere il governo: non fermeremo le lotte fin quando la legge 133 e il decreto Gelmini non verranno ritirati! Quello che sta accadendo in questi giorni ci parla di una mobilitazione straordinaria, potente, ricca. Una nuova onda, un’onda anomala che non intende fermarsi e che piuttosto vuole vincere. Facciamo crescere l’onda, facciamo crescere la voglia di lottare. Condividi