di Luca Santini*

Seconda parte

E poi venne il precario

Le posizioni fin qui richiamate si dividevano, sul piano dei rimedi proposti, in due filoni essenziali: da un lato coloro che proponevano una vasta redistribuzione degli impieghi disponibili mediante la riduzione generalizzata della giornata lavorativa, dall’altra coloro che auspicavano l’istituzione di una misura di garanzia del reddito indipendente dal lavoro, per sdrammatizzare il dilemma della disoccupazione e per consentire al contempo l’attivazione dell’individuo anche oltre la sfera produttiva formale. Le politiche pubbliche che seguirono, come e noto, hanno disatteso l’una e l’altra aspettativa.

Quanto all’ipotesi della riduzione dell’orario di lavoro la risposta e stata nel senso di una completa disarticolazione del mondo produttivo organizzato, sostituito proprio a partire dagli anni Ottanta da una produzione flessibile, segnata da impieghi temporanei e precari, con un’altissima incidenza del lavoro autonomo. In un contesto economico cosi trasformato e in un mondo del lavoro cosi frammentato, la riduzione dell’orario del lavoro per legge sembra ormai un’ipotesi scarsamente percorribile, a causa del collasso delle condizioni strutturali per la programmazione di un intervento cosi impegnativo di politica economica. I Governi hanno invece mosso dei passi significativi nella direzione della garanzia di un reddito indipendente dal lavoro, anche se con esiti diseguali e ancora incompleti nei vari Paesi europei.

Accanto a sistemi generosi (come in Scandinavia e in alcuni Paesi nord-europei, ma anche in Irlanda) capaci di sostenere efficacemente l’individuo nelle fasi di transizione lavorativa senza mortificarne la dignità e l’autonomia, ci sono dei modelli di reddito minimo più restrittivi quanto ai criteri di accesso (come in Gran Bretagna o in Francia), o addirittura contesti in cui il legislatore ha totalmente omesso di istituire strumenti di protezione del reddito universalistici e di base (questo e il caso dell’Italia). In ogni caso la deregolamentazione del mercato del lavoro (anche laddove e stata combinata con l’istituzione di nuovi strumenti di tutela del reddito) non ha certo posto riparo alla grave crisi sociale indotta dalla trasformazione della società salariale. Le voci che si levavano negli anni Ottanta a favore di un profondo ripensamento dei fondamenti politici della società europea non hanno ancora trovato risposta adeguata.

Al contrario, la fase economica negativa in cui ci troviamo ripropone oggi il tema della disoccupazione, in termini ancora più drammatici di qualche decennio addietro, poiché alla figura del “senza lavoro” si affianca oggi del “lavoratore precario”, formalmente inserito nel sistema produttivo ma ugualmente esposto al rischio di povertà e di esclusione sociale. Difficile non rimanere sgomenti di fronte ai dati recentemente diffusi dall’Istat, secondo i quali il 30% dei residenti in Italia sono a rischio di esclusione sociale.

Gli anni e i decenni trascorsi dalla fine del regime fordista ad oggi senza che si ponesse rimedio alla condizione dei precari non sono dunque privi di conseguenze nefaste; la perdurante inerzia della politica nel trovare forme di regolamentazione e di tutela sociale adeguate all’avvento della “produzione flessibile”, ha indotto la nascita di una nuova specie di precari, precari della crisi, o di “seconda generazione”. Se in un primo momento, e segnatamente nel corso degli anni Settanta, la precarietà aveva ancora una componente di attivazione, di scelta, di fuga consapevole da un regime di fabbrica vissuto come opprimente, oggi, al termine della seconda parabola discendente della società salariale, ci troviamo di fronte a un soggetto ormai sensibilmente impoverito e incapace di spendersi con successo su un mercato del lavoro sempre più concorrenziale.

Se agli albori del post-fordismo la figura del freelance poteva incarnare l’aspirazione di un soggetto in cerca di autonomia e in grado di manipolare con efficacia gli strumenti sofisticati e innovativi della comunicazione e dell’informatica, oggi all’affacciarsi della crisi di inizio millennio viene alla ribalta una figura di precario massificato, la cui prestazione appare ormai svalorizzata e standardizzata. Deriva da ciò un soggetto in crisi non più circoscritto ad un settore produttivo, ma esteso all’intera società, paradigmatico dell’intera produzione. Questo nuovo soggetto, che agisce nel contesto di una precarizzazione di massa e generalizzata, non fa più del lavoro un fattore di riconoscimento e di soggettivazione, non si percepisce come soggetto attivo in una società basata sul lavoro, non progetta sulla base dell’impiego il proprio futuro, e invece consapevole proprio della incapacità del lavoro di garantire un futuro degno di questo nome. In questo senso egli appare decisamente contemporaneo alla parabola discendente della società salariale.

Per quanto riguarda l’orizzonte italiano i dati ci parlano di una forza lavoro sfiduciata, composta di oltre 2 milioni di under 30 in condizione di totale dipendenza dalla famiglie di origine, in una sorta di limbo esistenziale, tra un contratto precario e l’altro, al di fuori di qualsiasi percorso formativo o lavorativo. In questa che e stata definita neet generation (ne occupata, ne in formazione) vi e un misto di sfiducia per la mancata realizzazione delle aspettative, di rabbia per una condizione sociale inaccettabile, di pragmatico “rifiuto” nei confronti di un mondo del lavoro respingente che non lascia quasi più speranze di successo e di affermazione personale. Assai difficilmente i meccanismi spontanei del mercato e la semplice ripresa del ciclo economico potranno porre riparo a una condizione sociale cosi compromessa. L’Ocse applicando dei sistemi di analisi molto innovativi ha pubblicato un rapporto che analizza le possibilità di crescita a lungo termine dei Paesi più industrializzati.

Da questo studio emerge che nel periodo 2011-2060 il Pil italiano, salvo l’emergere di fattori di innovazione radicale ad oggi imprevedibili, crescerà in media solo dell’1,4% annuo, un tasso di crescita largamente insufficiente a riassorbile la disoccupazione indotta dalla crisi economica degli ultimi anni. Una situazione sostanzialmente stazionaria caratterizzerà grossomodo il resto delle economie industrializzate, con una Germania ferma nel cinquantennio a una crescita dell’1,2% annuo e con una media per i Paesi dell’Osce pari al 2%. Le analisi più accreditate non mettono dunque all’ordine del giorno l’eventualità di una crescita sostenuta capace di rilanciare in grande stile l’accumulazione e, di riflesso, l’occupazione. D’altra parte gli outlook sulla fuoriuscita dalla crisi additano come settori produttivi del futuro dei campi che si prestano al massimo a una creazione di manodopera e di processi produttivi iperspecializzati e di breve periodo, o comunque caratterizzati da una consistente dose di precarietà.

Tra i settori rispetto ai quali si giocherà il successo economico del prossimo futuro si possono annoverare la ricerca scientifica, la medicina applicata (soprattutto macchinari per la diagnostica e creazione di nuovi farmaci), la circolazione delle informazioni, la tecnologia dei materiali e dei trasporti. E lecito aspettarsi un vero e massiccio rilancio dell’occupazione dagli investimenti in queste produzioni? Su un versante diverso, per certi versi opposto, quasi anti-tecnologico, hanno una consistente possibilità di sviluppo una serie di servizi personalizzati e di prossimità, legati all’accudimento, all’alimentazione, al benessere, alla socialità (massaggi, produzioni agricole biologiche, organizzazione di eventi a livello locale, ecc). E’ sostenibile pensare, però, che un’economia semi-informale di questo genere possa generare impieghi stabili e adeguatamente garantiti?

Non c’e da dubitare, insomma, che il futuro sarà all’insegna della precarietà esistenziale dei produttori. Qualsiasi piano per la creazione del lavoro, che non voglia ridursi a una mera riedizione retorica dell’omonimo piano del 1949, dovrebbe riuscire a confrontarsi in modo convincente con questi ineludibili nodi strutturali. Il nodo della tutela dei precari appare sempre più ineludibile. L’assenza di un adeguato sostegno nei momenti cruciali di transizione lavorativa determina la riscattabilità del precario, il suo vivere perennemente sulla soglia dell’esclusione, la sua rinuncia forzata al futuro. Non e affatto allarmistico il richiamo di Guy Sanding sul rischio che il perdurante disimpegno della politica nel delineare una strategia progressista per contrastare la precarietà possa consegnare la nuova “classe pericolosa” costituita dai precari a un “inferno” populista e neo-fascista. Andrebbe invece delineata quella che Standing chiama “una politica del paradiso” che abbia al suo centro proprio l’istituzione di una misura di tangibile ed efficace tutela del reddito.

* presidente dell’Associazione Basic Income Network – Italia

Fonte: Alternative per il Socialismo

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