di Luca Santini*

Prima parte

La crisi del modello sociale europeo (secondo i suoi primi interpreti)

L’incertezza economica domina il panorama sociale e alle nostre spalle pare esserci una classicità infranta. Sempre più rapporti statistici ci informano di una situazione stagnante della produzione che non accenna a riprendersi, mentre la contestazione o la disaffezione colpiscono pressoché tutte le forze politiche tradizionali. Al cospetto di un declino sociale che pare senza fine, e forte la sensazione di trovarsi in un’epoca di mezzo. E impossibile parlare della crisi europea senza riferirsi alla crisi della società salariale. Appena qualche decennio fa era diffusa tra la popolazione la legittima aspettativa di fare ingresso nella vita sociale trovando una degna collocazione lavorativa ragionevolmente stabile nel corso dell’esistenza, con progressioni di carriera programmate, con una coerenza di massima tra percorso formativo e impiego.

Il lavoro, vera architrave del sistema, si collocava esattamente al centro del sistema sociale, quale anello di congiunzione tra pubblico e privato: in riferimento alla sfera pubblica il lavoro era il contributo che il soggetto offriva al benessere collettivo, pur rimanendo, sul piano privato, un mezzo di autorealizzazione meramente individuale. La centralità del lavoro salariato era poi suggellata da politiche pubbliche orientate al raggiungimento dell’obiettivo del pieno impiego. A chiusura del sistema era poi progettato un sistema di assicurazione sociale capace di neutralizzare i rischi che avrebbero potuto compromettere o elidere definitivamente la capacita di prestare il lavoro: disoccupazione, malattia, vecchiaia, carichi familiari. Le centralità del lavoro salariato e l’insieme di tutele che da esso si dipanavano costituivano un corpus di regolamentazioni compatto che a buon diritto possiamo definire classico. Si trattava di un vero e proprio modello, quello appunto che va comunemente sotto il nome di modello sociale europeo.

L’epoca post-classica ha il suo momento di debutto a partire dagli anni Ottanta, momento in cui si materializza in Europa, per la prima volta dal dopoguerra, il fenomeno della disoccupazione di massa. Lo shock petrolifero e l’avvio di una riconversione industriale su larga scala fecero emergere il problema di una massiccia e strutturale eccedenza di offerta di lavoro; i contemporanei ne rimasero enormemente colpiti e gli interpreti più autorevoli non esitarono a cogliere le implicazioni di fondo che il ritrarsi del lavoro comportava. In effetti il tasso di disoccupazione nell’Europa del dopoguerra era stato a lungo e costantemente molto basso.

Nei Paesi che componevano la Comunità economica europea la disoccupazione nel 1960 era pari a circa il 2,5% della forza lavoro, con differenze territoriali che andavano da una percentuale inferiore all’1% nella Germania occidentale, o pari all’1,5% in Francia a una di poco superiore al 5% in Italia1. Nel 1970 il tasso medio di disoccupazione era ancora pari al 2,5%, mentre a partire dal 1975 si assiste a un incremento vertiginoso del tasso di disoccupazione che balza dapprima al 4,1% e poi in una lenta salita giunge nel 1980 al 5,8%, al 6,9% nell’anno successivo, e all’8,1% nel 1982 per poi giungere al picco del 9,3% nel 1987. Negli anni successivi si e avuto un recupero parziale dell’occupazione anche se come e noto non si sono più ripetute le straordinarie performance economiche degli anni Cinquanta e Sessanta. Dopo il parziale recupero dei primi anni Duemila, il decennio si e chiuso con la più grave crisi economica ed occupazionale dagli anni Trenta ad oggi, e di conseguenza il tasso di disoccupazione ha raggiunto nella zona dell’euro la soglia inedita dell’11,8%.

E interessante rileggere quale fu negli anni Ottanta la reazione degli interpreti e degli studiosi, al primo emergere del fenomeno della disoccupazione oggi risorgente (in forme peraltro più gravi rispetto ad allora). Non si ebbe, al contrario di oggi, alcuna sottovalutazione del problema ne tanto meno alcuna fiducia in una “ripresa” miracolistica che avrebbe portato per incanto il ciclo economico ai livelli antecedenti alla crisi. Era chiara al contrario la percezione della disoccupazione come sintomo dell’infrangersi di equilibri classici ormai irripetibili; forte era dunque l’invito a gettare ex novo le fondamenta del patto sociale.

Ralf Dahrendorf, ad esempio, parlava di una nuova disoccupazione che rispetto alla grande disoccupazione “classica” degli anni Trenta aveva di specifico che i disoccupati a lui coevi erano diventati superflui. Si era cioè ben lontani dalla situazione di scarsità cui Keynes cercava di porre rimedio mediante un intervento pubblico nell’economia, un aumento dei salari e un rilancio della domanda aggregata. La disoccupazione degli anni Ottanta cadeva in una situazione di abbondanza, sicché appariva tangibile agli occhi di un liberale come Dahrendorf il rischio che si giungesse alla formazione di una società stabilmente cristallizzata in tre gruppi reciprocamente segregati e non comunicanti: un 10% di popolazione occupata in posizione di vertice, un 80% di classe operaia salariata nel mezzo e un ulteriore 10% di sotto-classe di disoccupati alla base.

Che fare di questo gruppo di emarginati? Come uscire da un’impasse che mette in pericolo la democrazia? L’analisi approda sul terreno dell’utopia, lo studioso chiede soluzioni drastiche, con voce alta e ispirata affida al presente il compito di progettare un futuro in discontinuità con il passato: “La società del lavoro si dilegua. Quel che accade oggi nel mondo non e soltanto un singhiozzo nella storia della società del lavoro, ma una serie di sempre meno dominabili sintomi di un dilemma. Ognuno si aggrappa disperatamente ai valori di ieri, benché diventi sempre più chiaro che essi non corrispondono alle realtà di domani”.

Non si continui dunque, ammonisce il sociologo liberale, con le traiettorie sperimentate, la crisi del lavoro che si dipana sotto i nostri occhi non sia letta in modo consolatorio come momentaneo ripiego congiunturale di un crescita altrimenti illimitata, al contrario si traggano tutte le conseguenze della fase e si progetti da subito una realtà sociale fondata su nuovi principi. Negli stessi anni, sempre in territorio tedesco ma sul fronte socialdemocratico, gli fa eco Oskar Negt (autore oggi meno noto ma allora piuttosto influente) che dalla crisi del lavoro trae spunto per assegnare compiti nuovi ai vari attori sociali, sindacato in testa. Non e sopportabile, infatti, lo scandalo di una società che “rischia di soffocare nella ricchezza e nella produzione eccedente e, allo stesso tempo, e incapace di assicurare a milioni e milioni di persone il minimo civile perché possano condurre un’esistenza umana”. Anche da queste pagine sbalza fuori l’invito a cambiare di paradigma, a rifiutare l’atteggiamento dei cosiddetti realisti che “continuano a fare esperimenti con il prolungamento del presente nel futuro, o con riti funebri che tengono lontano il passato”.

Di fronte al semplice e nudo fatto che i posti di lavoro disponibili non solo diminuiscono sempre più ma che ben presto molti di quelli esistenti saranno del tutto scomparsi, si impone secondo Negt un rovesciamento di prospettiva di 180 gradi. La stessa temporalità quotidiana deve adesso cambiare: se la giornata lavorativa e stata per secoli il centro e il punto di partenza per l’organizzazione della giornata da vivere, nel prossimo futuro si avrà la situazione inversa, sarà la giornata da vivere a stabilire e a giudicare quanto dovrà durare e come dovrà essere la giornata lavorativa. Quando toccò a Jurgen Habermas prendere parola nel dibattito, il filosofo lesse il fenomeno sociale contingente della disoccupazione entro il vasto quadro della storia moderna: “l’idea utopica di una società basata sul lavoro ha smarrito il suo potere persuasivo, non perché le forze produttive abbiano perso la loro innocenza, o perché l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione non abbia condotto di per se all’autogestione dei lavoratori. Ciò e accaduto perché l’utopia ha perso il suo riferimento alla realtà”.

Il rifiuto di ogni interpretazione “minimalista” della disoccupazione di massa degli anni Ottanta ebbe fautori anche in Francia, soprattutto con la cosiddetta scuola della regolazione e con la sua insistenza sull’avvento di una nuova era della società salariale. Vi e poi da segnalare anche la lucida utopia di Andre Gorz che a partire dalla dissoluzione dei rapporti capitalistici arrivava a preconizzare l’avvento di una “non classe di non lavoratori”; con la sua critica radicale all’ideologia del lavoro e all’etica della produzione Gorz leggeva l’avvento della disoccupazione come un crisi epocale: “La crisi e, di fatto, ben più fondamentale di una semplice crisi economica e sociale. E il crollo dell’utopia sulla quale sono vissute le società industriali da due secoli a questa parte”.

La prognosi di importanti e forse decisivi cambiamenti imminenti nelle fondamenta della società salariale sembra dunque negli anni Ottanta una sorta di communis opinio di tutti gli interpreti, almeno tra coloro che muovono a vario titolo da un approccio critico rispetto all’economia di mercato. Questa stessa ispirazione razionalmente utopistica troverà poi espressione nel (di poco successivo) bestseller dell’americano Jeremy Rifkin con la sua profezia circa la fine del lavoro: “Dopo secoli in cui si e definito il valore dell’uomo in termini strettamente produttivi, la sostituzione massiccia del lavoro umano con quello delle macchine lascia la massa lavoratrice priva di un’autodefinizione e di una funzione sociale”.

* presidente dell’Associazione Basic Income Network – Italia

Fonte: Alternative per il Socialismo

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