Torniamo a Marx, non andiamo "oltre"

di Alberto Burgio e Alfonso Gianni
A sinistra va di moda l'ideologia dell'«oltrismo». Ma se invece riprendessimo le teorie del filosofo di Treviri e di Keynes?
Pochi giorni fa è comparso, con ovvio rilievo di stampa, un appello italo-tedesco...
ai rispettivi parlamenti nazionali perché questi ratifichino nello stesso giorno, e comunque prima del Consiglio europeo previsto per fine giugno, il cosiddetto fiscal compact, ossia il nuovo accordo che, dopo il Six Pack e il Patto Euro Plus, intende inferire un nuovo colpo al residuo brandello di sovranità nazionale sui bilanci in favore di una «sovranazionalità» retta da organismi del tutto a-democratici. Naturalmente, secondo i proponenti l'appello, tale ratifica andrebbe accompagnata da una dichiarazione politica «per un nuovo passo in avanti verso una forte Unione politica con un governo federale», ma si capisce che si tratta del fumo che accompagna l'arrosto, visto che lo sciagurato patto rimarrebbe tale e addirittura rafforzato, alla faccia dello stesso Hollande che ha dichiarato l'intenzione, una volta vinte le elezioni francesi, di rinegoziarlo. Il che comporta anche un ulteriore sostegno alla maggioranza bulgara che sta approvando a tappe forzate la revisione dell'articolo 81 della nostra Costituzione per introdurvi l'obbligo del pareggio di bilancio, in modo tale da precludere anche un referendum confermativo.
L'appello in questione è firmato da eminenti personalità, alcune delle quali fanno parte del milieu della sinistra con ambizioni radicali. La giustificazione fornita è che non si può rinchiudersi in una nicchia di opposizione, che bisogna «scendere in campo», che si tratterebbe quindi di stabilire una nuova tappa nella costruzione dell'Europa da aggiustare poi in seguito. Argomentazioni infantili, potremmo dire, se non provenissero da persone assai avvertite e politicamente esperte. Bisogna quindi interrogarsi sulle ragioni che ci hanno condotto sino a questo punto. Perché siamo tornati indietro alla destra hegeliana, per cui tutto il reale (banalmente equiparato all'esistente) appare razionale? Perché si è interiorizzato un principio in virtù del quale ogni atteggiamento oppositivo è in partenza considerato di nicchia nel migliore dei casi, suicida nella maggioranza dei medesimi?
Sono domande che non dovrebbero lasciare nessuno indifferente, poiché sono rivolte in primo luogo a noi stessi. Potremmo anche riformularle nel modo seguente: perché la «società civile» europea, pur umiliata, taglieggiata, impoverita e deprivata di un futuro credibile, rimane - al di là di rilevanti e meritori sussulti, come quello greco - sostanzialmente passiva di fronte a quella che, col suo consueto aplomb, Mario Draghi ha definito la «fine del modello sociale europeo»? E perché anche i migliori intellettuali, che pure - come Ulrich Beck, tra i firmatari del citato appello - sono stati in passato tra i cantori di questo modello, si accodano ora, come in un nuovo tradimento dei chierici, al suo funerale?
Non crediamo ce la si possa cavare con risposte che pure facciano riferimento a una corretta contestualizzazione storica, né osservando che il neoliberismo, ideologia portante e inverata del moderno capitalismo, ha subito una vera e propria falsificazione. Se il sistema capitalistico nella sua ipertrofica dimensione finanziaria è ancora saldamente in piedi, ciò è dovuto al fatto che negli Usa e in Europa - e, mutatis mutandis, in Cina - lo Stato è intervenuto a piene mani nell'economia finanziaria e in quella produttiva. Sta di fatto che neppure di tale protagonismo del «pubblico» la sinistra ha saputo avvantaggiarsi. E rispondere che la ragione di ciò sta nella sua estinzione come pensiero politico autonomo sarebbe accontentarsi di tautologia, benché purtroppo vera.
Se questo è vero, allora il problema è prima di tutto culturale - o, se vogliamo, ideologico. L'inazione e la passività dei corpi sociali dipendono dal fatto che questa crisi è letta, quindi subita, come la conseguenza di comportamenti errati: come la punizione per presunti errori commessi. Ed è con ciò giustificata. Per questa ragione - crediamo - si tende a non reagire: si mugugna, tutt'al più si eccepisce su aspetti marginali (bisognerebbe far pagare di più questo piuttosto che quello), ma non ci si contrappone in radice allo schema interpretativo (il «debito», lo sbilancio tra bisogni sociali e risorse disponibili) che, nella rappresentazione diffusa da politici e media, legittima le misure draconiane imposte al grosso dei corpi sociali, cioè al lavoro dipendente.
Quello che così scompare del tutto è la consapevolezza della causa immediata della crisi, che risiede proprio in uno dei pilastri del neoliberismo: la contrazione delle retribuzioni. Il detonatore è stato il debito privato, non certo quello pubblico. Quest'ultimo è giunto solo attraverso la "pubblicizzazione" del primo, cioè con l'aiuto al sistema bancario da parte degli Stati. Ma la diffusione capillare dell'indebitamento, nonché la presenza attiva dei fondi pensione - cui tanti lavoratori avevano affidato la sicurezza del loro futuro - sui mercati finanziari, ha congiunto interessi collettivi e individuali alla sorte di questi ultimi. Questo non solo ha reso in fondo desiderabile anche a livello di massa che gli istituti bancari venissero salvati dal denaro pubblico, malgrado il loro comportamento spesso delinquenziale, ma anche che il debito privato accumulato venisse percepito dalle singole persone come una colpa derivante da un eccesso dei propri desideri rispetto alle proprie possibilità. Quando dalla crisi del debito privato si è passati a quella del debito pubblico - il che è ciò che contraddistingue l'attuale fase soprattutto in un'Europa renitente politiche anticicliche - quel senso di colpa si è dilatato, introiettando la convinzione che interi popoli e nazioni fossero «vissuti al di sopra dei propri mezzi». Il tutto nel bel mezzo di una sovrapproduzione di merci tradizionali. I sacrifici diventerebbero quindi la penitenza per gli eccessi passati. E il pareggio di bilancio la medicina salvifica pronta a prevenire prima ancora che curare.
Un capolavoro ideologico, non c'è che dire, fondato su una fitta rete di cointeressenze materiali radicate e diffuse ma conseguente anche alla subalternità della sinistra moderata (così, del resto, sono state giustificate tutte le «riforme» pensionistiche) e - riconosciamolo - all'inadeguatezza culturale e politica della cosiddetta sinistra "radicale", rivelatasi incapace di contrastare, nel senso comune, la prospettiva egemone. Non potendo far credere che sia la scarsità di risorse a rendere necessarie le sacrificali politiche di rigore, le classi dominanti si sono con successo adoperate per fare discendere i sacrifici dall'eccesso di opulenza. C'è di più. Per riproporsi, il neoliberismo aveva bisogno di un lavacro purificatore. La sua contaminazione con lo Stato ne aveva compromesso l'immagine in modo preoccupante. Bisognava chiarire che l'intervento statuale era solo transitorio e che comunque veniva limitato alla salvezza degli istituti finanziari, lasciando inalterata la struttura e le modalità di funzionamento dell'economia reale. Per fare ciò erano e sono necessarie due grandi operazioni.
La prima si muove più su un terreno ideologico e consiste nel rilancio in grande stile della polemica contro le dottrine di John Maynard Keynes, individuato dagli attuali protagonisti e interpreti del sistema capitalista mondiale come un pericolo addirittura peggiore del ritorno a Marx, poiché considerato, a differenza di quest'ultimo, prossimo e interno al sistema. Il disarmo culturale prima che politico della sinistra ha lasciato spazio a sciocchezze di questo genere, facendo persino dimenticare che a spalancare le porte al nazismo non fu la grande inflazione dei tempi di Weimar - domata già alla metà degli anni Venti - bensì la sciagurata politica deflazionistica del «cancelliere della fame» Heinrich Brüning.
La seconda operazione cui il neoliberismo affida il proprio rilancio riguarda la capacità del soggetto impresa di fornire una ricetta per uscire dalla crisi. Il marchionnismo è niente altro che questo. Il tentativo di rilanciare la competizione e la catena del profitto al di là e indipendentemente dalle politiche statuali, quando non contro di esse. Per questo non solo Marchionne rivendica un nuovo carattere "apolide" per la Fiat, ma vuole imporre un sistema di relazioni e di regole specifico del gruppo tale da prescindere dai quadri legislativi nei vari paesi in cui opera. A questo scopo servono autorità sovranazionali che si preoccupino della stabilità monetaria e del rigore di bilancio, lasciando tutto il resto all'impresa. Questo è il senso della attuale governance europea e del suo ultimo prodotto, il fiscal compact.
Si sente spesso dire, anche nel campo della sinistra "radicale", che bisogna andare «oltre Keynes», visto che al tempo suo questioni oggi cruciali e corresponsabili della crisi, come il disastro ambientale, non occupavano la scena con l'attuale ineludibile centralità. Il guaio è che questo oltrismo ha la stessa vaghezza di quello che, ancora più tempo addietro, predicava la necessità di andare «oltre Marx». Allora, piuttosto che evocare improbabili orizzonti salvifici, varrebbe forse la pena di rimettere i piedi per terra e di tornare a declinare il ragionamento critico incentrato sulla potenza distruttiva di un modello sociale che impedisce l'impiego delle forze produttive sociali (oggi virtualmente sufficienti a garantire all'umanità intera adeguati standard di vita) se (nella misura in cui) esso non comporta la remunerazione del capitale privato. Insomma, se, invece di precipitarsi «oltre», si tornasse intanto a Marx e a Keynes, tentando anche inedite e fertili contaminazioni, forse si opererebbe utilmente per la ricostruzione di un pensiero di sinistra.
Fonte: Il Manifesto di sabato 17 Marzo 2012

Martedì
20/03/12
12:50
I tempi di una sinistra moderata, possibilista, della terza via, mercantilista, financo liberale son finiti. Se non sei rigoroso ed intransigente nella difesa dei diritto e dei diritti ti portano via anche la tua stessa dignità di essere biologico. Perché il diritto è l'unica arma che ha il debole e l'ultimo per difendersi dal forte. Il cd. forte è in sostanza una anomalia umana e biologica, considerato che ha come obiettivo la sottomissione e/o distruzione di suoi simili e appartenenti alla sua stessa famiglia, per conseguire accumuli materiali, a discapito, necessariamente, della convivenza e sopravvivenza comune, dei suoi simili e dello stesso habitat naturale.
In tutto ciò fondamentale è il ruolo del diritto, tanto discusso e denigrato dalla demagogia liberale e neoliberista non solo mercantilista-economica, ma anche financo giuridica, che si è saldamente affermata in questi ultimi decenni.
Svuotando questo valore della sua vera ragione di essere e commutandolo in qualcosa di opzionale e relativo, ostativo alla libera espressione e magari non necessario.
Il diritto, la legge e la legalità hanno un ruolo eminente, se non esclusivo, è la garanzia unica di tutela del più debole contro la legge del più forte che è propria dello stato di natura, ossia dell’assenza di diritto e di diritti.
Ecco per anni si è propagandato che l'assenza di regole e di diritto è la massima libertà e la strada per la liberazione degli individui e dei popoli ... nessuno che diceva che il diritto è qualcosa che appartiene alla conquista del debole è l'affermaziuone di tutela dell'uguaglianza e dignità dell'essere umana a fianco del suo fratello, ed è qualcosa di strettamente intrinseco alla vita comune, alla condivisione e dignità .
Nessuno che difendesse il diritto, l'unico baluardo contro la legge del più forte. Tutti a portare la bandiera della deregulazion del libero mercato, della "libertà".
Essere di sinistra (oggi più che mai) non significa assumere una posizione ideologica, (un inganno grave nel quale si è caduti), ma semplicemente assumersi la responsabilità naturale di difendere la dignità umana. Ed il diritto è l'unica arma da cui ripartire.
La questione dei diritti del lavoro e del lavoratore, oggi, ne sono un esempio lampante. per dare opportunità eventuali ai figli dei lavoratori, si tolgono diritti ai lavoratori. Diritti che sono il portato di conquiste e lotte lunghe secoli.
[Da Intervista a Luigi Ferrajoli]
Il rapporto di molti di noi con il marxismo è stato ed è tuttora ambivalente.
Penso, da un lato, che il pensiero democratico abbia un grande debito nei confronti di Karl Marx: per la sua lezione di realismo, per la sua analisi dello sfruttamento del lavoro e delle disuguaglianze e dei conflitti di classe, per averci insegnato ad assumere il punto di vista dei soggetti più deboli che ben possiamo identificare con il punto di vista dei soggetti di diritti fondamentali insoddisfatti. Ricordo sempre il bel passo di Bobbio in
Politica e cultura, di quasi mezzo secolo fa: «Se non avessimo imparato dal marxismo vedere la storia dal punto di vista degli oppressi, guadagnando una nuova, immensa prospettiva sul mondo umano, non ci saremmo salvati. O avremmo cercato riparo nell’isola della nostra interiorità privata, o ci saremmo messi al servizio dei vecchi padroni». D’altro canto dobbiamo riconoscere che il contributo teorico del marxismo al diritto è stato poco più che zero. Non solo. Questa carenza teorica ha finito per avallare – all’ombra di formule vuote come l’idea del diritto come sovrastruttura, la dittatura del proletariato e la prospettiva dell’estinzione dello Stato – la svalutazione, o peggio il disprezzo per il diritto che hanno rappresentato, io credo, una delle ragioni principali del fallimento storico di quella speranza del secolo che è stato il comunismo. Quella svalutazione e quel disprezzo hanno infatti investito il lascito più prezioso della tradizione liberale: il principio di legalità, cioè l’idea del diritto e dei diritti come insieme di regole, di limiti e controlli sul potere politico, sostituita dalla fiducia in un potere supposto buono perché rivoluzionario. Che è stata un’ennesima e purtroppo tragica versione dell’idea del governo degli uomini in luogo del governo delle leggi.[da Alfonso García Figueroa, Intervista a Luigi Ferrajoli, in http://www.dirittoequestionipubbliche.org/D_Q-5/contributi/testi_5_2005/rec_G_Figueroa-Ferrajoli.pdf]