di Norma Rangeri

Magari siamo già in un sistema pre­si­den­ziale per il ruolo poli­tico del Qui­ri­nale, cer­ta­mente sem­bra di vivere in un paese che ha eletto il capo del governo: o si votano le riforme o andiamo alle ele­zioni avverte Renzi, per­ché «tutti devono sapere che comun­que si vota, o le riforme o le ele­zioni anti­ci­pate» chiosa il pre­si­dente del par­tito demo­cra­tico. O le riforme o il voto è solo l’ultimo ricatto pro­pa­gan­di­stico di chi si rap­pre­senta come il padrone dell’Italia.

L’arroganza del per­so­nag­gio e la tor­sione auto­ri­ta­ria del suo pro­getto di revi­sione della Carta sono noti e ormai dif­fu­sa­mente rico­no­sciuti da una larga opi­nione pub­blica. E tut­ta­via va sot­to­li­neata la fun­zione ideo­lo­gica di que­sta esi­bi­zione di forza, di que­sto atteg­gia­mento oltran­zi­sta e ricat­ta­to­rio (dopo di me il diluvio).

Lo spiega bene un altro cam­pione di demo­cra­zia, Ser­gio Mar­chionne. Dopo gli inci­ta­menti del Pre­si­dente della Repub­blica sulla neces­sità e l’urgenza di que­ste, pes­sime, riforme, è l’amministratore dele­gato dell’azienda auto­mo­bi­li­stica a spro­nare il pre­si­dente del con­si­glio. Mar­chionne, che è un fan di Renzi, lo invita a «tener duro» (il lin­guag­gio è tutto), e lo ras­si­cura soste­nendo che se per basto­nare gli ope­rai avesse dovuto aspet­tare le riforme sul lavoro sarebbe ancora «impa­lu­dato». (Poi final­mente è arri­vato il mini­stro Poletti e il più è stato fatto). Dun­que le riforme, prima ancora che per i frutti pro­messi ser­vono per la mani­po­la­zione del ter­reno che semi­nano. Non ha avuto biso­gno di riforme Renzi per usare la vit­to­ria alle pri­ma­rie del Pd per recla­mare il governo del paese.

Se il capo del governo fosse arri­vato a Palazzo Chigi dopo ele­zioni poli­ti­che, potremmo rite­nerlo almeno par­zial­mente legit­ti­mato a recla­mare le “sue” riforme. E il con­di­zio­nale è d’obbligo visto che non è il Governo, ma il Par­la­mento il tito­lare della pro­po­sta di riforma costi­tu­zio­nale così come è l’attuale Capo dello stato la carica depu­tata a deci­dere il ricorso alle urne.

Fare la voce grossa, minac­ciare le oppo­si­zioni, mostrare insof­fe­renza per le scelte della seconda carica dello Stato (con­sen­tire il voto segreto su alcuni emen­da­menti), signi­fica esi­bire al popolo il segno del comando. Il pre­si­dente Grasso ieri ha cer­cato di sal­vare capra e cavoli, ostru­zio­ni­smo e rego­la­mento alla fine di un tumul­tuoso via vai tra il Qui­ri­nale e palazzo Madama. Ne ha rica­vato l’ennesimo ammo­ni­mento del Qui­ri­nale che in serata ha dif­fuso un pole­mico comu­ni­cato «sul grave danno che reche­rebbe al pre­sti­gio e alla cre­di­bi­lità par­la­men­tare il pro­dursi di una para­lisi deci­sio­nale sulle riforme». Vale ricor­dare che pro­prio Grasso osò pro­nun­ciarsi con­tro un senato non eletto.

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