Il patto che pesa sul Quirinale

di Alberto Burgio
Lo si potrebbe definire il paradosso del segreto. I patti segreti contengono, di norma, clausole indecenti e inconfessabili che però proprio per questo, prima o poi, vengono a galla. Facendo tanto più rumore quanto più sono oscene.
Il caso dell’articolo 19bis del decreto fiscale (che, ricordiamo, depenalizza l’evasione fiscale per importi inferiori al 3% dell’imponibile o dell’Iva dichiarata) lo dimostra, anche se non è da escludersi che tutta la sceneggiata che ne ha accompagnato la scoperta prima e il rinvio poi sia, appunto, una furbesca messinscena. Un segnale trasmesso al più influente dei beneficiari affinché faccia bene i suoi conti in vista dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica.
È un caso incredibile e al tempo stesso paradigmatico per almeno due ragioni. Nel merito basta leggere il commento non del manifesto o della Fiom, ma del presidente della Commissione incaricata dal Tesoro di studiare la delega fiscale. Sostiene Franco Gallo (ma le stesse cose le ha dette in sostanza la direttrice dell’Agenzia delle Entrate) che la norma è inaccettabile "perché stabilisce una soglia di non punibilità per la frode fiscale, che di per sé richiede una punizione". E anche perché, ci permettiamo di aggiungere – oltre a essere l’ennesimo condono fiscale, che costerebbe alla finanza pubblica (ai contribuenti onesti) qualcosa come venti miliardi di euro l’anno – sancisce il principio aberrante (ha ragione Alfonso Gianni) che chi è più ricco ha più diritto di violare le leggi.
Ma questa piccola ignobile storia fa schifo ma è istruttiva soprattutto per le modalità con cui Renzi l’ha gestita. Se ne parlerà dopo il 20 febbraio, ha detto. Il caso è chiuso, tacciano i dietrologi che insinuano baratti e favori a Berlusconi. Di scandaloso in tutto questo non c’è solo la presa in giro dei non addetti ai lavori (la quasi totalità degli italiani). C’è che questa gigantesca presa in giro è ormai divenuta l’essenza stessa di tutto ciò che questo governo dice e programma.
A parte il fatto che la faccenda non riguarda soltanto Berlusconi e le sue frodi fiscali ma migliaia di grandi evasori ai quali Renzi strizza l’occhio, che cosa vuol dire dopo il 20 febbraio? Che c’entra Cesano Boscone? Forse che Renzi non sa che ciò che sta veramente a cuore al boss di Arcore è la revoca dell’ineleggibilità? Forse che sospendere il discorso sino all’elezione del nuovo capo dello Stato non serve precisamente a ricattare Forza Italia per portare a casa un presidente come si deve e, a cascata, le "riforme" istituzionali che incardineranno il nuovo regime? Come sempre con Renzi (e con i suoi: lo sconcio delle primarie in Liguria insegna) la malafede trionfa. Con buona pace di quanti si fanno ancora incastrare dalla retorica del cambiamento.
La questione, in tutto ciò, è una sola: reggerà questo governo nonostante la continuità, ogni giorno più evidente e sconcertante, con le più inveterate tradizioni della corruttela politica? Oppure pagherà finalmente per la tracotanza del suo capo, costruita sulla menzogna, e per la menzogna sorretta dalla tracotanza?
Ci sono al riguardo due scuole di pensiero. La prima dice che non pagherà perché forte dell’altrui debolezza. Semplicemente, non ci sono alternative. Non si intravede chi potrebbe sostituire Renzi. E questa assenza rafforza il governo ogni giorno di più nonostante le porcherie inanellate, o forse proprio in virtù di esse. Perché gli consente di esercitare il potere e gli conserva il favore dei grandi elettori e della stampa.
L’altra scuola di pensiero afferma invece che il governo si indebolisce via via che la facciata innovatrice perde pezzi e lascia emergere l’anima reazionaria e un verminaio di interessi. E sostiene che l’assenza di un sostituto non è dirimente poiché una leadership può rivelarsi anche per effetto di un processo di crisi, nel suo approfondirsi. Tanto più che Renzi è sempre meno un conto in banca per i poteri forti che hanno investito su di lui. Non perché non abbia mantenuto le promesse, ma perché viene perdendo consensi nel paese ed è costretto a rischiare sempre di nuovo l’osso del collo per imporsi sugli alleati di governo, in parlamento e nel suo stesso partito.
Vedremo chi ha ragione. Di certo c’è che un percorso accidentato attende il governo nelle prossime settimane, tra elezione del nuovo presidente, legge elettorale, "riforme" costituzionali e della pubblica amministrazione. E che un compito sempre più limpido attende per converso le forze democratiche e di sinistra che, ovunque collocate, meritino ancora questo nome.
Si tratta in primo luogo di fare il possibile, insieme, per eleggere un presidente che volti pagina dopo questi anni bui. Che restituisca sacralità e vigore alla Costituzione. Che ridia dignità al lavoro e restauri i principi di giustizia sociale umiliati in questi anni di grandi coalizioni. Comunque occorre sottrarsi a qualsiasi complicità nell’eventuale (non improbabile) scelta di una figura che non soddisfi tali requisiti. E si tratta, in secondo luogo, di lavorare per la più rapida sostituzione di questo governo con un esecutivo che voglia raccogliere il vento di libertà che spira in qualche provincia dell’Europa e dargli man forte. Il che, tanto per cominciare, significa smetterla di piegarsi ai continui ricatti renziani e rifiutarsi di votare fiducie a getto continuo, mugugnando e promettendo fuoco e fiamme sempre per la volta che verrà.
Non c’è molto tempo, perché l’approvazione della legge elettorale incombe e con essa la prospettiva di un parlamento pienamente assoggettato. Dopodiché non vi sarà spazio nemmeno per immaginare un’alternativa qualsivoglia. A chi cautelosamente obiettasse che una resa dei conti con Renzi sarebbe al momento troppo rischiosa, risponderemmo che il tempo stringe; che non è detto lavori per noi; e che anche in politica c’è un modo sicuro per perdere le battaglie decisive. Evitarle, rinunciando a far vivere apertamente, con esse, le proprie ragioni.

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