Nonostante i numerosi impegni internazionali presi, in Italia manca ancora oggi il reato di tortura. La Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984, ratificata dal nostro paese nel 1988, prevede che ogni stato si adoperi per perseguire penalmente quegli atti di tortura delineati all’art. 1 della Convenzione stessa. Sono passati oltre 25 anni, ma in Italia il reato di tortura continua a essere un miraggio.

In merito ai recenti sviluppi del dibattito nella Commissione giustizia del Senato sul reato di tortura, il presidente di Amnesty International Italia, Antonio Marchesi, ha rilasciato questa dichiarazione:

“Si è materializzato lo scenario peggiore. Si è scelto di modificare il testo approvato alla Camera, rendendo necessario un altro passaggio parlamentare e dunque difficile l’approvazione di una legge prima della fine della legislatura”.

Perché tante difficoltà per una legge che consideri reato la tortura? Già nel 1764 Cesare Beccaria, autore del libro Dei delitti e delle pene, nel capitolo sulla tortura espresse parole di dura condanna:

“Una crudeltà consacrata dall’uso nella maggior parte delle nazioni è la tortura del reo mentre si forma il processo, o per costringerlo a confessare un delitto, o per le contraddizioni nelle quali incorre, o per la scoperta dei complici, o per non so quale metafisica ed incomprensibile purgazione d’infamia, o finalmente per altri delitti di cui potrebbe esser reo, ma dei quali non è accusato”.

Tornare alle pagine della storia non ci conforta, l’uomo è stato capace di inenarrabili crudeltà. Ci inorridisce il pensiero delle orrende e cervellotiche creazione di strumenti prodotti durante il corso dei secoli, con atroce fantasia, per estorcere confessioni, o piegare la volontà di prigionieri o oppositori politici.

Anche la storia gloriosa di Roma, motore dell’intera civiltà occidentale e la saggezza dell’elogiato diritto romano hanno il loro rovescio negativo. I bagliori di quella civiltà sono offuscati dai tanti episodi di efferatezza.

Nel diritto di Roma antica l’uso della tortura per intimorire e far confessare i testimoni assunse il carattere di strumento processuale perfettamente legale, la confessione era indispensabile per formulare una condanna, ma potevano essere torturati soltanto gli schiavi e gli stranieri, per i liberi era sufficiente il giuramento. Tuttavia gli schiavi non potevano essere sottoposti a tortura per produrre testimonianze contro i loro padroni.

La tortura era inflitta anche come punizione per una colpa commessa e quando la colpa fosse particolarmente grave, il condannato era sottoposto a supplizi tanto feroci che ne causavano la morte. In età imperiale, già con Augusto, cadde il divieto di torturare gli uomini liberi se si fossero macchiati di alcune gravi colpe, come la lesa maestà, la falsificazione delle monete, la magia e l’adulterio.

Gli storici nel riferire sui numerosi processi nel corso dei quali sarebbe stata impiegata la tortura per estorcere all’imputato una confessione, manifestarono la loro chiara disapprovazione al riguardo, per cui si potrebbe pensare che fosse una prassi contraria alla legge, un’eccezione, tollerata nel costume giuridico, ma non contemplata in alcuna disposizione legislativa. Durante il Principato, invece, una disposizioni legislativa riguardante la tortura giudiziaria anche dei cittadini liberi, la Lex Iulia maiestatis o Lex Iulia de maiestate, fu emanata nell’8 a.C. per volere dell’imperatore Augusto, il quale riordinò l’intera materia circa il crimine di lesa maestà, cioè di qualunque offesa o minaccia arrecata alla figura dell’imperatore che aveva le prerogative di sacralità e di inviolabilità proprie della tribunicia potestas, la cosiddetta sacrosanctitas (sacralità e santità). L’applicazione della nuova legge raggiunse ampia estensione già durante gli anni del successore Tiberio, divenendo una delle più potenti armi nelle mani dell’imperatore. Tra le misure previste dalla Lex Iulia vi era anche la tortura: i magistrati inquirenti erano autorizzati a usare metodi anche brutali nell’ambito degli interrogatori relativi al crimen maiestatis.

La disposizione che legittimava l’uso della tortura non era nuova, ma risaliva ad altre precedenti normative. Il ricorso alla tortura giudiziaria dei cittadini liberi non solo fu da sempre  ammesso, ma venne addirittura già legislativamente disciplinato nell’età repubblicana, almeno per quei reati che più mettevano in gioco interessi fondamentali per la vita dello stato, come il crimen maiestatis e l’incesto: il che significherebbe che il regime imperiale non abbia apportato, almeno sotto questo profilo, alcuna novità, ma si sia limitato a confermare una prassi già consueta. Per indagare e giudicare alcuni delitti di particolare risonanza pubblica o a sfondo politico si ricorreva al Senatus consultum ultimum in seguito al quale gli accusati erano esposti all’uccisione senza processo, provvedimento questo utilizzato durante il consolato di Cicerone, che se ne servì contro i seguaci di Catilina.

L’impiego della tortura nelle relative indagini, avvenne non solo al fine di individuare e punire chi fosse realmente sospettato di un sì grave crimine contro lo Stato (nel qual caso i tormenta apparivano ai loro occhi pienamente legittimi), ma spesso per eliminare gli avversari politici o i personaggi non allineati alla politica imperiale.

Al di fuori del sistema romano della tortura si colloca la tortura dei cristiani finalizzata non già ad estorcere dagli imputati una confessione che servisse di fondamento alla condanna o all’assoluzione, ma a costringerli ad osservare le leggi imperiali rinnegando la loro fede e sacrificando alle divinità ufficiali del paganesimo. Il crimine di cui l’Impero pagano incolpava i seguaci di Cristo, infatti, era fatto rientrare tra le tante specie del reato di lesa maestà, prescindendo da accuse particolari che vi erano connesse, ed era un reato di opinione, che si commetteva anche senza compiere precise azioni esteriori; la tortura, pertanto, era un mezzo di coercizione lasciato all’arbitrio dei giudici perché i cristiani rinnegassero la loro professione di fede, che per la legge imperiale costituiva un crimine.

Riportiamo alcune testimonianze di autori latini d’età imperiale sull’uso della tortura:

Leggiamo nella biografia di Augusto (cap.19), scritta da Svetonio nelle Vite dei Cesari:

“Una volta un vivandiere dell’armata illirica, che aveva eluso la sorveglianza dei portieri, fu sorpreso di notte presso la  camera da letto di Augusto, con un pugnale da caccia alla cintura: non si sa bene se fosse pazzo o se fingesse di esserlo, perché non se ne cavò nulla neanche con la tortura”.

e  ancora ( cap.27):

“Il pretore Quinto Gallio era venuto a salutarlo tenendo due tavolette doppie nascoste sotto la toga: Augusto sospettò che avesse una spada occultata, ma non osò accertarsene per timore di scoprire qualcosa di diverso, allora lo fece condurre dai suoi soldati e dai centurioni davanti al suo tribunale, lo sottopose alla tortura come uno schiavo e poiché non confessava niente, ordinò di ucciderlo, dopo avergli strappato gli occhi con le sue stesse mani. Scrisse poi che quest'uomo gli aveva chiesto un'udienza privata, che aveva attentato alla sua vita, che era stato gettato in prigione e poi rilasciato con il divieto di soggiornare a Roma e che era morto in un naufragio o per mano dei briganti”.

Sempre in Svetonio  (Tiberio, cap.62) leggiamo che episodi di brutalità e violenza era commessi anche senza che il malcapitato fosse reo di qualche misfatto:

“Una delazione a proposito della morte di suo figlio Druso, esasperò in Tiberio la ferocità che si accrebbe e raddoppiò. Credeva infatti che Druso fosse morto di intemperanza e di malattia, ma quando venne a sapere alla fine che era stato avvelenato in seguito ad un’intesa criminale tra la moglie Livilla e Seiano, non risparmiò a nessuno né torture né supplizi; la decisione di appurare la verità di questa faccenda lo assorbì talmente per giorni interi che ordinò di torturare seduta stante un ospite di Rodi, che aveva chiamato a Roma con una lettera amichevole e del quale gli era stato comunicato l'arrivo, come se si trattasse di un testimonio indispensabile all'inchiesta. Quando poi fu scoperto lo sbaglio, lo fece uccidere ugualmente, perché non potesse raccontare a tutti il sopruso subito.”

Nella biografia di Caligola (cap. 32), Svetonio conferma la cattiva fama che circonda questo imperatore:

“Anche nei momenti di svago, quando si dava al gioco e ai banchetti, si ritrovava non poca crudeltà sia nelle sue parole, sia nei suoi atti. Spesso mentre mangiava o era immerso nelle orge, si tenevano seri processi con relative torture e un soldato, specialista in questo genere di attività, tagliava la testa a prigionieri estratti a sorte dal carcere”.

Ma anche Seneca nel De ira  (III, 19) lo cita per ricordare che l’ira lo portava a compiere gesti di violenza dettati dalla crudeltà e perché riteneva che le punizioni servono di esempio e di lezione:

“Caligola faceva frustare con le verghe i senatori… li torturava con strumenti terribili: corde, stringi caviglie, cavalletti, carboni accesi e una volta fece squartare con frusta e fiamme tre senatori, come in genere si fa con gli schiavi, e ai condannati a morte  metteva una spugna in bocca per impedir loro di gridare”.

A proposito del successore Claudio, leggiamo in Svetonio (cap. 34):

”Per natura fu crudele e sanguinario, e ciò lo si vide sia nelle grandi, sia nelle piccole cose. Sottoponeva a tortura e faceva punire i parricidi senza nessun indugio e sotto i suoi occhi”.

Lo storico Tacito negli “Annali” riporta vari episodi di torture inflitte da Nerone.

Dal libro XIV, 60:

“Dopo questa risposta avuta col decreto senatorio e constatato che tutti i suoi delitti erano stati accolti come ottime imprese, scaccia Ottavia, addebitandole la sterilità; e, subito dopo, si unisce con Poppea. Costei, da tempo sua concubina e capace di tenere in pugno Nerone, come amante prima e come marito dopo, spinse uno dei servi di Ottavia a denunciarla per una tresca amorosa con uno schiavo. L'accusa venne costruita e fatta ricadere su un tale di nome Eucero, nativo di Alessandria, un suonatore di flauto. Le ancelle vennero sottoposte a interrogatorio e alcune furono indotte, con la violenza della tortura, ad ammettere il falso; ma più furono quante persistettero nel difendere la castità della padrona”.

dagli “Annali” di Tacito (XV, 57):

“Nerone si ricordò di Epicari, trattenuta in carcere dopo la delazione di Volusio Proculo, e, pensando che il corpo di una donna non reggesse alle sofferenze, ordina di straziarla con la tortura. Ma non le sferzate, non i ferri roventi, non l'accanimento dei carnefici esasperati dalla paura di subire uno smacco da una donna, riuscirono a farle ammettere le imputazioni. Così passò, senza nulla di fatto, il primo giorno di interrogatorio. L'indomani, mentre la riportavano alla tortura sopra una lettiga, perché gli arti slogati non la reggevano, Epicari si tolse una fascia dal seno, la fissò alla volta della lettiga a mo' di cappio, vi introdusse il collo e, lasciandosi andare con tutto il peso del corpo, esalò il debole soffio di vita rimastole”.

Dagli “Annali” di Tacito (XV,44) la narrazione delle torture inflitte ai cristiani da Nerone.

Nerone spacciò per colpevoli e condannò a pene di crudeltà particolarmente ricercata quelli che il volgo, detestandoli per le loro infamie, chiamava cristiani. Derivavano il loro nome da Cristo, condannato al supplizio, sotto l’imperatore Tiberio, dal procuratore Ponzio Pilato. Momentaneamente soffocata, questa rovinosa superstizione proruppe di nuovo, non solo in Giudea, terra d'origine del flagello, ma anche a Roma, in cui convergono da ogni dove e trovano adepti le pratiche e le brutture più tremende. Furono dunque dapprima arrestati quanti si professavano cristiani; poi, su loro denuncia, venne condannata una quantità enorme di altri, non tanto per l'incendio, quanto per il loro odio contro il genere umano. Quanti andavano a morire subivano anche oltraggi, come venire coperti di pelli di animali selvatici ed essere sbranati dai cani, oppure crocefissi ed arsi vivi come torce, per servire, al calar della sera, da illuminazione notturna. Per tali spettacoli Nerone aveva aperto i suoi giardini e offriva giochi nel circo, mescolandosi alla plebe in veste d'auriga o mostrandosi ritto su un cocchio. Per cui, benché si trattasse di colpevoli, che avevano meritato punizioni così particolari, nasceva nei loro confronti anche la pietà, perché vittime sacrificate non al pubblico bene bensì alla crudeltà di uno solo.

Maria Pellegrini

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