di Maria Pellegrini.

Nel 168 a. C., in seguito alla conquista della Macedonia da parte dei romani e il fascino su di essi esercitato dalla cultura greca, si intensificarono i rapporti fra vincitori e vinti, nonostante l’avversione di quanti, in Roma, consideravano la cultura ellenica un pericolo per lo stato romano e una minaccia ai costumi tradizionali. Il processo di integrazione fra le due culture fu inarrestabile. La compenetrazione culturale produsse una nuova civiltà, quella greco-romana, e Roma ne divenne il centro. L’incontro fra il sapere dei greci e quello dei romani provocò feconde influenze in tutte le discipline e in ogni manifestazione culturale. La ricerca scientifica invece si mutò in desiderio di mettere ordine e di catalogare le conoscenze acquisite: una sorta di trionfo della prassi sulla teoria, della concretezza tecnologica sull’astrazione speculativa.
Molti sono stati i tentativi di spiegare perché i romani non proseguirono l’opera scientifica dei greci, attenti come essi furono soltanto alla scienza applicata e cioè alla tecnologia, e alla stesura di trattati specialistici di tipo enciclopedico.
La ragione di ciò è stata ricercata nel diverso carattere dei due popoli. Lo storico americano William Sthal ha scritto in proposito: «Quando si prendono in esame la civiltà dei greci e quella dei romani, si rimane immediatamente colpiti dalle differenze notevolissime tra le mentalità di questi due popoli. Si potrebbe addirittura venire indotti a concludere che avessero temperamenti antitetici, che i greci fossero teorici e intellettuali, i romani pratici e anti-intellettuali. Come è ovvio, una generalizzazione semplicistica di questo tipo appare scarsamente fondata: ma, per quanto riguarda gli atteggiamenti assunti dai due popoli nei confronti della scienza, essa si avvicina abbastanza alla verità. I greci mostravano una profonda avversione per la scienza applicata che consideravano adatta agli artigiani; i romani invece facevano fatica ad assimilare anche le nozioni più elementari della scienza teorica, persino quando venivano presentate in forme semplici e comprensibili». Un giudizio eccessivamente severo che però contiene una parte di verità. Lo stesso Cicerone nelle “Tusculanae disputationes” si dichiara orgoglioso del fatto che mentre i greci avevano esaltato la geometria pura, i romani avevano applicato questo studio alle misurazioni e ai conteggi pratici. Ed è anche vero che i romani, prevalentemente agricoltori e guerrieri, nei primi secoli della loro storia non si occuparono né di filosofia né di scienza. Il loro interesse si concentrò - oltre che sulla letteratura in genere- sui problemi giuridici, data l’importanza del diritto nella costruzione di uno stato efficiente, e sull’oratoria collegata strettamente al diritto. L’interesse per la filosofia e la scienza si sviluppò più tardi per l’influsso della cultura ellenistica. Tuttavia anche quando uomini dotati della più viva curiosità intellettuale si avvicinarono alla scienza, essi non lo fecero con il rigore che tali discipline esigono.
La formazione di quanti si occuparono di discipline scientifiche fu sempre alquanto superficiale e quando anche i romani cominciarono a imitare i greci nella compilazione di manuali che offrissero una sintesi delle conoscenze acquisite, essi si prefissero scopi pratici che avessero un immediato riscontro con i bisogni del presente.
Indiscutibile motivo di decadenza dello spirito scientifico fu l’adesione di molti intellettuali alle dottrine epicurea e stoica che si diffusero nel corso del I secolo a.C. a Roma per la profonda crisi spirituale che investì le coscienze più sensibili, consapevoli del tramonto, o addirittura del crollo, di molti valori e ideali sui quali da sempre aveva poggiato la potenza romana. A queste filosofie si volsero i romani in cerca di risposte ai loro dubbi e ai problemi esistenziali, ad esse chiesero nuovi strumenti intellettuali, e soprattutto morali, per interpretare la realtà.
A Roma incontra una fortuna particolare un genere letterario sconosciuto nella tradizione greca, quello enciclopedico, praticato già da Catone il Censore (234-149 a. C.) che dedica al figlio i “Libri ad Marcum filium” che raccolgono precetti riguardanti ambiti culturali diversi, quali l’agricoltura, la medicina, la retorica, tutte discipline di carattere pratico. Di questa opera resta soltanto il “De agricultura”. In epoca tardo-repubblicana, la rapida modificazione dei costumi e la crisi generale dei valori tradizionali indussero a un desiderio, a volte nostalgico, di rivisitazione del passato, messo però a confronto con le istituzioni e i costumi delle altre civiltà soprattutto di quella greca. Tale spirito di emulazione nei confronti degli apporti stranieri di cui la civiltà romana si era nutrita, fecondò largamente l’opera di Terenzio Varrone (116-27 a. C.), scrittore prolifico e multiforme che si era occupato anche di discipline scientifiche trattate nella sua opera “Disciplinae” in nove libri, uno per ogni disciplina presa in esame, dedicati rispettivamente alla grammatica, dialettica, retorica, aritmetica, geometria, astronomia, musica, medicina e architettura. Ma si trattava, appunto, di un’enciclopedia fondata su nozioni già acquisite e raramente definibili come novità o approfondimenti scientifici. Tale opera, di cui resta soltanto il trattato sull’agricoltura “De re rustica”, e in genere tutta l’attività di questo eccellente e infaticabile poligrafo esercitò un’influenza decisiva sull’erudizione latina delle epoche successive. La trattazione di discipline quali la matematica o l’astronomia lascia presupporre lo sforzo, da parte dell’Autore, di piegare la mentalità, la lingua, la cultura romana alle esigenze del sapere scientifico. Non bisogna dimenticare infatti che nel processo di assimilazione della cultura filosofica e scientifica greca da parte dei romani fu necessario un rinnovamento e ampliamento della lingua e un superamento della convinzione che la trattazione di argomenti tecnici e scientifici fosse qualitativamente inferiore a quella di argomenti letterari.
D’importanza decisiva in tal senso fu il poema “De rerum natura” di Lucrezio (98 circa-55 a.C.). Questo sommo poeta latino, sulle orme di Epicuro, tentò di spiegare le origini del mondo e i fenomeni naturali mantenendosi rigorosamente fedele alla concezione atomistica dei filosofi greci Democrito e Epicuro secondo i quali tutta la realtà è costituita da atomi, particelle elementari che si muovono incessantemente dando luogo alla nascita, alla trasformazione e alla morte di tutto ciò che esiste. Le cose e gli uomini sono combinazione di atomi.
Nel ricostruire la storia dell’umanità egli smentì ogni interpretazione finalistica e provvidenzialista: il lento e graduale sviluppo dell’umanità dalla condizione ferina originaria a forme evolute di civiltà è considerato frutto discontinuo e contraddittorio dell’intelligenza e dell’iniziativa dell’uomo, stimolato dal bisogno e guidato dalla ragione attraverso tentativi, sperimentazioni, e soprattutto dal perfezionamento delle tecniche che tentano inutilmente di liberare l’uomo dall’insicurezza esistenziale e dalla paura della morte. La scienza è dunque, anche per Lucrezio, frutto di una conquista pragmatica, non già speculativa, e superamento di uno stato di errore e di dubbio. Tuttavia per lui le più evolute condizioni materiali (il cosiddetto progresso) non portano alla felicità: l’evoluzione della tecnica libera l’uomo da alcuni bisogni, ma pur essendo utile non è necessaria al conseguimento della felicità, è anzi spesso fonte di nuove ambizioni e strumento di sterminio nei periodi di guerra.
Nel corso del I secolo dopo Cristo, con l’affermazione di un potere sempre più dispotico, trattare argomenti tecnici, scientifici o eruditi divenne un rifugio per gli spiriti colti che preferivano stare lontani dal potere. La cultura ufficiale, tuttavia, pur riconoscendo l’importanza delle conoscenze scientifiche e tecnologiche, si ostinava a negare alle professioni tecniche dignità pari a quella delle attività umanistiche. Alla necessità di aggiornare e catalogare i risultati raggiunti nelle particolari discipline e di affermare la dignità intellettuale e sociale delle discipline tecnico-scientifiche, cercarono di rispondere alcuni spiriti eccellenti, fra i primi Vitruvio, un ingegnere militare in età cesariana e augustea, con il suo trattato “De architectura” nel quale egli rivendicò per la professione dell’architetto l’appartenenza ad un ambito altamente intellettuale e non solamente tecnico. Buona parte di quest’opera, per molti aspetti ammirevole, è occupata da una precettistica tecnica che dimostra straordinaria competenza professionale fondata sui principi poi divenuti classici della proporzione e dell’armonia. L’Autore tratta anche altri argomenti: climatologia, astronomia, idraulica, matematica, nella convinzione che un buon architetto non può prescindere dalle conoscenze di tali discipline. Per di più Vitruvio afferma con energia la connessione fra scienza e tecnica, fra scoperte teoriche dei fisici e dei matematici e loro applicazioni sul terreno pratico.
Ma a testimoniare l’interesse della prima età imperiale per le trattazioni tecniche e scientifiche, ci sono rimaste anche le opere di Pomponio Mela, Moderato Columella, Cornelio Celso, autori rispettivamente di un trattato di geografia, di agricoltura, di medicina, va considerato con interesse anche l’ampio e a volte oscuro poema scientifico astronomico “Astronomica” di Marco Manilio.
A partire dall’età di Cesare si fa sempre più vivo l’interesse per l’astrologia e l’astronomia. Il contatto con le civiltà orientali accentuò il desiderio di ravvisare negli astri un’influenza sul destino degli uomini e sul loro carattere. Anche la filosofia stoica dava grande importanza al rapporto dell’uomo con il cosmo e al legame tra il destino degli uomini e le leggi della natura. Augusto stesso teneva in gran conto gli oroscopi e Tiberio, l’imperatore che gli succedette, era un appassionato di astronomia e astrologia. Fra coloro che meditarono sui fenomeni naturali, non può essere tralasciato Seneca (circa 55 a. C.- circa 40 d. C.), a noi largamente noto soprattutto come filosofo e acuto moralista e psicologo. La sua opera “Naturales quaestiones” è una raccolta di notizie scientifiche tutt’altro che originali, attinte da opere di autori precedenti, arricchite da digressioni moralistiche. In sette libri, esse trattano i fenomeni fisici e meteorologici di cui si era già occupato Aristotele. Ma l’importanza dell’opera di Seneca nella storia della scienza è notevole, giacché attraverso quelle pagine è possibile colmare molte lacune del pensiero scientifico di autori - le cui opere sono andate perdute - che l’Autore cita come fonti. Per il filosofo Seneca la conoscenza della natura giova a liberare l’uomo dalle false paure, e a comprendere le leggi che governano l’universo e l’umanità stessa. Decisiva influenza esercita su questa opera il pensiero del filosofo stoico Posidonio di Rodi (135-50 a.C.), ammiratore di Roma, il quale identificava nell’impero romano l’incarnazione del cosmopolitismo stoico secondo il quale ogni individuo che viva secondo natura è cittadino del mondo.  Secondo la dottrina degli stoici, tutto è parte di un sistema unico: la Natura. La vita individuale o sociale è buona quando è in armonia con essa. L’ansia di sistemazione enciclopedica delle conoscenze acquisite nelle varie discipline, trova in Plinio il Vecchio la sua espressione più complessa e spesso contraddittoria. La sua “Naturalis historia” è il frutto di un’età in cui non vi è più spazio per la ricerca astratta, o per la sperimentazione. Nella presunzione che tutto sia stato scoperto, allo scienziato non resta che catalogare il già noto. Eppure Plinio non si adegua del tutto a questo disinteresse dei contemporanei per l’incremento delle conoscenze scientifiche: in un passo dell’opera egli scrive infatti con rammarico: «Oggi assolutamente nulla si apprende di nuovo con nuove ricerche, anzi non si cerca neppure di conoscere bene quanto hanno scoperto gli antichi». Plinio il Vecchio e la sua vasta opera merita una trattazione più vasta. Possiamo per ora affermare che fu animato da una grande passione conoscitiva nel comporre la sua voluminosa opera definita da Gian Biagio Conte «un vero e proprio inventario del mondo», «un archivio dell’universo».

Nota: nell’immagine De agri cultura di Catone,in un manoscritto italiano del XVsecolo (Biblioteca Medicea Laurenziana, Firenze)

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