di Andrea Colombo

Sta­sera stessa il governo met­terà la fidu­cia sul Jobs Act, auto­riz­zata ieri sera nella riu­nione del governo. Non è la scelta che Mat­teo Renzi avrebbe pre­fe­rito. Non è la ricerca di una prova di forza a tutti i costi in stile Mar­ga­ret That­cher: è una scelta obbli­gata. Renzi non può con­ce­dere alla mino­ranza e ai sin­da­cati nep­pure il poco che aveva deciso la dire­zione del Pd della set­ti­mana scorsa. Non lo reg­ge­rebbe l’ala destra della sua mag­gio­ranza e se, per non per­dere i voti dell’Ncd, il pre­si­dente del con­si­glio e segre­ta­rio del Pd si accon­ciasse a can­cel­lare le scarne con­ces­sioni della dire­zione, allora sarebbe la mino­ranza del suo par­tito a far man­care i voti. A rischio non sarebbe la legge, che a quel punto pas­se­rebbe con l’appoggio di Forza Ita­lia, ma la sorte stessa del governo. Un attimo dopo il voto, Renzi non potrebbe che salire al Colle ammet­tendo di non disporre più di una mag­gio­ranza politica.

La sola via d’uscita dal vicolo cieco è la fidu­cia, come era chiaro già da giorni. La mino­ranza Pd, certo, con­ti­nua a pro­te­stare. Anche ieri Cuperlo ha riba­dito il fermo no a una deci­sione desti­nata a stroz­zare ogni dibat­tito e altret­tanto fanno, a mag­gior ragione, le oppo­si­zioni. Però, fuori dal gioco delle parti, a tutti è chiaro che altre solu­zioni Renzi non ne ha e, anche se mai lo con­fes­se­reb­bero, è la strada pre­fe­rita anche dai dis­si­denti. Pos­sono ora sot­trarsi al lace­rante dilemma tra votare secondo coscienza, rischiando il loro futuro poli­tico, o secondo disci­plina di par­tito. Non a caso Enrico Morando, uno dei pasda­ran della can­cel­la­zione dell’articolo 18, ricorda che lui non si è mai sognato di votare diver­sa­mente da come par­tito det­tava, anche quando non concordava.

Qual­cosa, in ogni caso, Renzi dovrà con­ce­dere, con un emen­da­mento che il governo pre­sen­terà oggi. Di sostan­zioso, nelle modi­fi­che al testo varato dalla com­mis­sione, ci sarà ben poco. Cer­ta­mente verrà pre­vi­sto il rein­te­gro in alcuni casi, giu­sto per sal­vare la fac­cia, ma con tali e tanti paletti da ren­dere la pie­tanza dige­ri­bile per­sino per Mau­ri­zio Sac­coni. Qual­che altro ele­mento minore, tra quelli par­to­riti dall’assemblea Pd, entrerà pro­ba­bil­mente nella nuova ver­sione, ma resterà comun­que una mano di ver­nice stinta solo sulla fac­ciata. Anche per­ché qual­siasi con­ces­sione è subor­di­nata alla pre­senza di coper­ture tutt’altro che certe, per non dire incertissime.

In teo­ria esi­ste la pos­si­bi­lità che qual­che sena­tore del Pd sfidi per­sino il voto di fidu­cia. Sareb­bero comun­que troppo pochi per impen­sie­rire il governo. I più otti­mi­sti vagheg­giano un paio di defe­zioni, ma pro­ba­bil­mente per­sino quello è un conto esa­ge­rato. Palazzo Chigi e la pre­si­denza del gruppo al Senato scom­met­tono che di no alla fidu­cia, dai ban­chi del par­tito liquido, non ne arri­verà nem­meno uno e che quei due o tre “duri” decisi a non cedere si spin­ge­ranno tutt’al più sino a non par­te­ci­pare alla vota­zione, essendo l’astensione, al senato, equi­va­lente al voto con­tra­rio. «Con la fidu­cia con­se­guenze poli­ti­che», vati­cina Ste­fano Fas­sina affi­dan­dosi al solito twit­ter. Mezzo par­ti­co­lar­mente utile per­ché mes­saggi obbli­ga­to­ria­mente con­cisi dispen­sano dallo spie­gare a quale con­se­guenza il cin­guet­tante di turno alluda. In realtà la sola «con­se­guenza» di un certo peso e per Renzi nono­stante tutto temi­bile sarebbe una scis­sione. Even­tua­lità che non pare però die­tro l’angolo. E nep­pure all’orizzonte.

Forte di un’approvazione che si può tran­quil­la­mente dare per scon­tata, Renzi arri­verà mer­co­ledì al primo con­fronto con gli ossi real­mente duri, che non abi­tano nei palazzi romani ma a Bru­xel­les e Ber­lino. Lì, invece, il felice esito della mis­sione non è affatto certo, e comun­que non dipende dalla sorte dell’articolo 18. Ma la mano più dura, quella per con­vin­cere gli ita­liani spau­riti a tirare fuori il por­ta­fo­gli, quella almeno Renzi ha già deciso come gio­carla. Il mezzo Tfr in busta paga nel 2015 arri­verà, chec­ché ne dicano gli indu­striali. Su base volon­ta­ria, quasi cer­ta­mente, ma ci sarà. Su que­sto il pre­si­dente del con­si­glio è irremovibile.

Ora si tratta solo di con­vin­cere le ban­che a pre­stare alle aziende i fondi neces­sari con un tasso d’interesse sop­por­ta­bile. Mis­sione dif­fi­cile, non impos­si­bile. Pur­ché l’Inps, cioè lo Stato, si offra come garante della restituzione.

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