Darko Strelnikov

In questi giorni si parla tranquillamente del progetto di riordino delle Regioni che farebbe sparire l'Umbria. Ne parlano “tranquillamente” esponenti politici, che essendo a fine corsa nella nostra regione, sono interessati alla creazione di una nuova e diversa istituzione, che gli permetterebbe di tornare a competere per “un altro posto al sole”. Ma la cosa non ha niente di tranquillo. La sparizione dell'Umbria porterebbe un vero e proprio cataclisma politico, istituzionale ed economico, soprattutto in una realtà che, nonostante i tagli, vive ancora di pubblico. Vediamo le conseguenze, che questi personaggi consenzienti hanno “dimenticato” di dire. Ragioniamo sulla ipotesi presentata dai renziani del Partito Democratico che è già stata calendarizzata in Parlamento e che prevede l'unione dell'Umbria con la Toscana e la Provincia di Viterbo. 
Il primo effetto è la perdita, per Perugia, dello status di capoluogo. La cosa, di fatto, vale anche per Terni. Anche se, soppresse le Province, restasse qualche forma di ente intermedio, questo avrebbe una consistenza inferiore a quello delle vecchie Comunità Montane e non essendo elettivo, non avrebbe un legame diretto con i cittadini, ma sarebbe, comunque, una emanazione della nuova Regione, la cui sede scontata sarebbe Firenze. Questo vuol dire che tutto ciò che aveva nella sua sigla la parola regionale verrà soppresso o, nel migliore dei casi, trasferito o retrocesso a succursale della sede centrale del capoluogo toscano. Questo vale per tutti gli enti di emanazione regionale; dalla Sviluppumbria, all'Arusia, dall'Adisu, a vari istituti. Vale per tutti gli uffici decentrati dello stato, vale per i comandi dei Carabinieri, della Guardia Forestale e di Finanza e vale per gli uffici giudiziari con la probabile perdita della Corte d'Appello. Ma anche strutture come Prefetture e Questure potrebbero subire modifiche e da due passare ad una. Verrebbero rivisti tutti i parametri di divisione amministrative degli enti di gestione di secondo grado. Probabile una sola struttura per Asl, Ati, Atc e Consorzi vari. Cosa che costringerebbe a rivedere l'attuale conformazione delle aziende pubbliche con conseguenti accorpamenti delle stesse, soprattutto in settori come acqua e rifiuti. Paradossalmente , le conseguenze peggiori sarebbero a danno della politica.

Spariranno tutte le sedi regionali di partiti, sindacati, associazioni di categoria, della cultura e del tempo libero. Da 21 Consiglieri l'Umbria passerebbe ad eleggerne da 3 a 5, a seconda del numero che verrò stabilito per la nuova regione. Anche i posti in Giunta passerebbero, secondo logica, da 6 ad uno, con una perdita secca tra Regione e Province di quasi 100 posti a sedere. Resterebbero solo i Comuni e i pochi deputati (i senatori dice che non ci saranno più) eletti nel nostro collegio. Per non parlare delle nomine che non passando più per Perugia si ridurrebbero da diverse centinaia a poche decine. Le conseguenze sul piano economico potrebbero essere pesanti. Una riorganizzazione della macchina pubblica di questa portata non può che determinare un cospicuo esubero di dipendenti pubblici. Con la revisione delle Province e l'abolizione delle Comunità Montane, la nostra Regione si trova già a dover ricollocare 1000 dipendenti, oltre ad avere sul groppone 700 forestali. A tenersi stretti tra 4 o 5 anni ce ne saranno altrettanti in aggiunta a quelli di cui parlavo prima. Difficile che tutti possano essere ricollocati e probabile che quelli che lo saranno dovranno , in parte, trasferirsi in altri territori. Per una economia che campava di edilizia e di commercio al dettaglio può essere la botta definitiva. Ma anche il resto della struttura produttiva subirà una mazzata non trascurabile. Oggi le decisioni sulla distribuzione e la canalizzazione dei fondi di bilancio, dei fondi europei e dello Stato, si prendono a Perugia. Domani si prenderanno a Firenze. Nessuno può quindi pensare che tutto resterà come prima. Anche perchè l'Umbria è notoriamente una entità divisa da rivalità campanilistiche che difficilmente farà blocco. Infine, la nuova realtà, costringerà tutti a costruire rapporti di collaborazione con il potere centrale della nuova Regione. E su questo chi era già in Toscana parte nettamente avvantaggiato.

Il rischio di diventare una terra di frontiera dimenticata dal mondo, una specie di fortezza sul deserto dei tartari in attesa di qualcosa che non succede, è molto alto. Ora mi domando, ma chi ha già dato per scontato il nuovo assetto ha chiaro in testa quello che potrebbe accadere e le ripercussioni negative che si avrebbero sul nostro territorio? No, perché gli esponenti politici di oggi hanno a cuore solo il loro sedere e non si interessano al nostro. Ma qualcuno, al termine di questa esposizione, potrebbe obiettare che questo è conservatorismo allo stato puro e che l'attuale assetto è indifendibile. Non avrebbe torto, solo che il punto non è questo. Il punto è come si fa a rivoluzionare l'attuale realtà costituzionale, tenendo conto delle specificità geografiche e culturali maturatesi in un secolo e mezzo di stato unitario. Si può fare in due maniere. La prima, prendendo atto del fallimento delle Regioni e puntando sulla creazione di una trentina di dipartimenti di amministrazione attiva sul territorio come unico ente di area vasta e di collegamento tra Stato e Comuni. Oppure optare per la tanto bistrattata riforma Monti delle province, riveduta e corretta da sostanziosi cambiamenti. Ridurre ulteriormente le Regioni, portandole ad un numero non superiore a 7/8 ed istituendo i dipartimenti – Province, che possono essere un numero simile o poco superiore alle attuali regioni, delle quali potrebbero seguire gli attuali confini. Il problema è che con una classe politica nella quale militano un esercito di “azzeccagarbugli”, è praticamente impossibile fare riforme compiute che abbiano una visione generale. Piace lo spezzatino e non ci si accorge che quello che si è fatto per gli organi centrali, magari non va d'accordo con i nuovi assetti regionali, che a loro volta potrebbero anche bisticciare con gli assetti locali. Non c'è una visione armonica e a soffrirne sono e saranno certe periferie, ritenute marginali. La nostra è una di quelle, urge aprire un dibattito serio e con interlocutori diversi.
 

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