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Dino Greco Eugenio Scalfari ha dedicato il suo tradizionale commento politico su la Repubblica di domenica al caso Fiat o, per meglio dire, al caso Marchionne. Lo ha fatto, in primo luogo, per rivendicare a se stesso la lungimiranza di avere intuito anzitempo - quando il manager del Lingotto veniva osannato urbi et orbi come un genio della lampada - che il suo principale merito era stato quello di salvare dalla bancarotta l'impresa simbolo del capitalismo italiano grazie ad una spregiudicata operazione di politica industriale e finanziaria, resa possibile dalla crisi irreversibile della Chrysler e da una straordinaria congiuntura economica e politica, colta con encomiabile tempismo. Scalfari, ci rivela anche di aver subito intuito che una Fiat "globalizzata" avrebbe trasferito il suo baricentro negli Stati Uniti e che nessuna speciale attenzione sarebbe più stata dedicata all'Italia, neppure a Torino, dunque, con buona pace del sindaco Chiamparino che si illude di far valere la sua moral suasion nei confronti del Lingotto. Perché, anzi, con tutta evidenza, lo spin-off, la scissione del gruppo in Fiat group e Fiat industrial preluderebbe alla vendita dell'auto. La precoce intuizione (non esattamente solitaria, come suppone il mentore di Repubblica, ma pazienza...) si arricchisce però ora di una per lui inconsueta chiave di lettura, questa invece tutta legata alle relazioni economico-sociali. Scalfari ci dice che la soluzione inventata da Marchionne per Pomigliano non era affatto destinata a disciplinare i rapporti sindacali in quell'area soltanto, come servilmente Cisl e Uil hanno finto di credere, ma rappresenta un modello da esportare in tutto il gruppo per riplasmare l'intero sistema delle relazioni industriali in Italia, con pesante e stabile compromissione dei diritti acquisiti dai lavoratori lungo una pluridecennale stagione di conquiste. Scalfari certo non se ne compiace, ma dà l'esito per scontato e ricorre, per descriverne la dinamica, ad una metafora "idraulica", quella della «legge chimico-fisica dei vasi comunicanti», in forza della quale «in ogni sistema globalmente comunicante il liquido tende a disporsi in tutti i punti del sistema allo stesso livello, obbedendo all'azione della pressione atmosferica». In questo contesto, cioè, tutto tenderebbe fatalmente ad allinearsi: «tasso di interesse, tasso di efficienza degli investimenti, condizioni di lavoro, prezzo delle merci». Ma poiché il lavoro medesimo è stato ridotto allo stato di merce, ecco che il suo valore, il salario, si collocherà non già, come crede Scalfari, ad un livello mediano in ogni punto del globo, bensì, tendenzialmente, al livello più basso consentito dal "libero" mercato delle braccia. Perché questa è la legge della concorrenza, del capitale. Che è diversa, sostanzialmente diversa, da quella della fisica, e agisce secondo modalità tanto più brutali quanto più efficace sarà stata la neutralizzazione della capacità di autodifesa e di autorganizzazione dei lavoratori. Per intenderci, la fase in cui Marchionne spiegava che il costo del lavoro incideva solo in minima parte (dal 5 all'8%) sui complessivi costi di produzione, per cui sarebbe stato inutile dedicarsi compulsivamente a comprimerlo per ricercare altrove le fonti della competitività industriale, è completamente tramontata. Insomma, si è tornati al classico: si produrrà a Pomigliano, oppure a Melfi, o a Torino solo se, tendenzialmente, lì si imparerà a lavorare come a Tychy o a Kragujevac, cosa - malgrado tutto - piuttosto improbabile. Dunque, la delocalizzazione è considerata inevitabile. L'attacco frontale alla Fiom, vale a dire al solo sindacato esistente, si riduce a pura propaganda che serve a inventarsi un capro espiatorio oltre che a recuperare un potere assoluto sulle attività produttive che ancora non saranno espiantate dall'Italia. Eugenio Scalfari ci riserva, tuttavia, una chiusa nella quale è riassunta tutta l'impotenza di una cultura liberal-democratica che non riuscendo ad oltrepassare i propri confini culturali si impantana in qualche palese incoerenza e si abbandona ad un'ipotesi del tutto velleitaria. La chiave di volta, «la madre delle riforme», come la chiama Scalfari, starebbe in un grande processo redistributivo della formidabile ricchezza accumulata nel nostro Paese, applicando, alla rovescia, quello stesso sistema idraulico che nei rapporti di produzione genera sottosalario e sfruttamento, ma questa volta, grazie ad un intervento «virtuoso» della politica, potrebbe compensare questa "oggettiva" ingiustizia, rimettendo il sistema in equilibrio. L'appello di Scalfari è accorato: «cosa aspettate - dice - che la casa vi crolli addosso?». Ma a chi rivolge, Scalfari, questa domanda di soccorso? A chi governa oggi l'Italia incoraggiando le più spregiudicate manovre antioperaie e le accompagna con il saccheggio del welfare? Difficile crederlo. Oppure ad un Pd che di fronte all'infame ricatto della Fiat invita i lavoratori di Pomigliano a preferire un lavoro da schiavi alla ribellione? E se è in questa direzione che Scalfari guarda: chi, nell'opposizione che siede in Parlamento, possiede la forza, il bagaglio culturale, il radicamento sociale, la chiarezza strategica per perseguire un simile obiettivo con la radicalità che renderebbe la terapia efficace? Ancora più precisamente: come si fa a pensare che si possa produrre una frattura così diametrale fra chi domina i rapporti sociali da una parte e la rappresentanza politica - tutta - dall'altra, che dalla cultura libersista è così profondamente permeata? Come si fa a pensare che ad un'economia di mercato insediatasi in ogni ambito dell'organizzazione sociale si possa contrapporre una politica solidale, magicamente capace di generare maggiore equità (se non giustizia) e di trasformare in bene comune quello che invece si vuole pervicacemente mercificare, privatizzare, mettere a mercato? Perché un progetto riformatore possa prendere corpo occorre agire, simultaneamente, sui due terreni, quello dell'economia e quello della politica, avendo il coraggio di riaffrontare il tema cruciale, quello della proprietà, delle sue forme e dei suoi limiti, secondo il sentiero tracciato dagli articoli 1, 3, 36, 38, 40, 41, 42 e 43 della Costituzione. Tenere questi terreni separati significa non uscire dal cul de sac e predicare al vento. Mentre continueranno ad essere i poteri forti, protagonisti dello scempio in cui viviamo, a tessere indisturbati la loro tela. Da liberazione.it Condividi