Di Fabrizio Salvatori
Professor Piergiovanni Alleva, è polemica sul cosiddetto "piano C" che l'amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, avrebbe già predisposto qualora l'esito del referendum sull'accordo per Pomigliano non fosse da lui ritenuto soddisfacente. Questo piano consisterebbe nella chiusura dell'attuale società che gestisce lo stabilimento campano seguita dal licenziamento e da una successiva riassunzione del personale, selezionata presso un'azienda nuova di zecca. Ma tale procedura non violerebbe l'articolo 28 dello Statuto dei lavoratori, che sanziona "il comportamento antisindacale"?
Sono sbigottito e incredulo, perché sarebbe, tra l'altro, una cosa non solo assolutamente illegittima ma anche molto grossolana.
Nello specifico?
Se questa faccenda del "piano C" fosse vera, sarebbe illegittima non solo ovviamente dal punto di vista degli articoli 14 e 15 dello Statuto dei lavoratori, che vietano la discriminazione del lavoratore in qualsiasi modo, tanto più per la sua affiliazione sindacale, ma anche sotto altri profili.
Allora quali sono gli strumenti giuridici effettivi a disposizione della Fiat per attuare questa operazione?
Non credo proprio che abbiano strumenti convincenti. Possono provare a forzare, ma diventa una storia infinita e irta di ostacoli e pericoli. La ditta non può evadere dai suoi obblighi, come evadrebbe qui. Sarebbe una diminuzione di personale a fini antisindacali ottenuta con mezzi fraudolenti, dal momento che la nuova società sarebbe comunque riconducibile alla stessa proprietà. In linea di massima se un'azienda - inteso come sistema di beni - passa dalla proprietà all'altra, anche tutti i lavoratori passano, salvo che si tratti di un'azienda con una crisi dichiarata e che ci sia un accordo sindacale che faccia passare solo alcuni lavoratori ma, in questo caso, spiegando il perché e sulla base di criteri obiettivi. Ciò evidentemente sarebbe impossibile se lo scopo fosse uno scopo antisindacale. Quindi due cose: se gli impianti che la nuova società andrà a gestire saranno gli stessi, tutti i lavoratori passerebbero alla nuova società, salvo, ripeto, un accordo sindacale che però non sarebbe possibile qui perché chiaramente bisognerebbe dire quali sono i criteri attraverso i quali gli uni passano e gli altri no e verrebbe fuori facilissimamente la discriminazione sindacale.
A quel punto si potrebbe quindi parlare di licenziamenti discriminatori?
Certo, perché sarebbe un aggiramento della legge 223, dove ti devi confrontare con dei criteri trasparenti. Se invece questa operazione fosse fatta attraverso la messa in mobilità di tutti i lavoratori e poi la riassunzione ex novo di alcuni di essi da parte di una newco, si tratterebbe ancora una volta di capire due cose: uno, se non sarebbe un trasferimento di azienda mascherato e allora ugualmente dovrebbero passare tutti; oppure comunque di un licenziamento collettivo fatto senza criteri obiettivi, perché alla fine dei lavoratori alcuni ritrovano un rapporto di lavoro verso un soggetto che appartiene alla stessa proprietà mentre altri no. In ogni caso in una vicenda di questo genere, con uno sfondo sindacale così chiaro, lo scopo anti sindacale non potrebbe essere nascosto.
Un vecchio vizio dell'imprenditoria italiana?
Io dico sempre che quando si parla di queste cose è come cercare di nascondere un gatto dentro a un sacco. Non si può fare, perché il gatto si muove. Un vecchio proverbio che aiuta molto l'atttività forense. Ne ho fatte di queste cause con queste condizioni, ma ero un giovanotto e poi hanno smesso.
DA liberazione.it
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