Il duo Meloni -  Giorgetti tira per ora un sospiro di sollievo. L’Italia è passata sotto le forche caudine del rating delle maggiori agenzie, Standard & Poor’s, Dbrs Morningstar, Fitch e Moody’s, sostanzialmente incolume, anzi con qualche miglioramento. Infatti il giudizio di Moody’s sul debito pubblico italiano, giunto nella  serata di venerdì scorso, a mercati chiusi, non si limita a confermare il dato precedente, ma cambia in meglio l’outlook, ovvero la previsione sull’andamento futuro, portandolo da “negativo” a “stabile”. 

Intendiamoci, di per sé non è gran cosa. Si pensi, tanto per fare  un esempio, che nella stessa seduta l’agenzia statunitense ha fatto fare un balzo alla valutazione sul Portogallo, portando il rating di due gradini avanti, da “Baa2” a “A3”, malgrado che quel paese si avvii alle elezioni anticipate, solitamente fattore di instabilità (a pensar male si potrebbe dire, proprio per questo, essendo che a dare le dimissioni è stato il primo ministro socialista Antonio Costa. Quasi un’eccezione in questa Europa). 
Il giudizio di Moody’s era particolarmente atteso con più di una apprensione  nel nostro paese. La ragione è presto detta. Moody’s  tiene l’Italia sulla soglia al di sotto della quale i titoli del debito pubblico cominciano ad essere considerati “spazzatura”.  Un outlook negativo indicava quindi una linea di tendenza in quella direzione, dove le regole di molti fondi impongono di sbarazzarsi dei titoli che finiscono sotto la categoria “Baa3”. Il pericolo è stato più agitato che reale ed imminente. E’ servito cioè a giustificare la linea “prudente” (leggete pure filo austerity) che guida la legge di bilancio. I famigerati mercati hanno dimostrato di temere meno la scadenza, tanto è vero che il loro comportamento ha altri punti di riferimento. Nella giornata di venerdì, nell’imminenza del giudizio di Moody’s, lo spread fra Btp e Bund ha danzato verso il basso, chiudendo a 177, un solo punto in più rispetto al giorno precedente. Un segnale per capire come da un lato, gli operatori finanziari non pensavano che Moody’s potesse veramente spingere l’Italia fra la spazzatura, dall’altro che l’andamento degli spread, in un contesto di rendimenti in calo quasi dappertutto, è più sensibile alle oscillazioni del prezzo del petrolio (ancora lui!) passato da un consistente ribasso a una risalita nella stessa giornata di giovedì scorso. 
Diventa allora interessante leggere le motivazioni che hanno accompagnato la “sentenza” dell’agenzia di rating. Si tenga presente che quando nell’agosto del 2022 Moody’s aveva abbassato l’outlook per l’Italia da “stabile” a “negativo” aveva sollevato tre criticità che ne motivavano la mossa: la mancanza di riforme strutturali (di solide controriforme potremmo dire noi), l’aumento dei costi dell’energia e l’ingente ammontare del debito pubblico italiano. Nella Nota di venerdì scorso la stessa Agenzia si complimenta con la capacità dei governi del nostro paese di avere mantenuto nel decennio precedente alla pandemia da Covid “avanzi primari” che fanno ben sperare sulla attitudine dell’attuale governo di “mantenere un surplus di bilancio anche nei prossimi anni”. Il che, come ben sappiamo, significa stringere la cinghia della spesa sociale, adottando una neutralità delle leggi di bilancio, ovvero un comportamento prociclico rispetto all’andamento dell’economia di mercato. Naturalmente a Moody’s non può che fare piacere che il quadro patrimoniale del sistema bancario italiano, considerato un importante fatto di stabilità, si sia rafforzato, grazie alla retromarcia innestata precipitosamente – e come si vede per solidi motivi - dal governo Meloni in merito alla tassazione degli extraprofitti delle banche. 

Quanto alla implementazione del Pnrr, questa volta Moody’s si limita a prendere atto – né potrebbe sottacerlo – dei “ritardi nella terza rata” e delle “significative revisioni proposte” che “rivelano debolezze” sì, ma evidentemente non tali da spaventare gli economisti dell’Agenzia di rating. Se guardiamo ai costi dell’energia, al di là delle oscillazioni di giornata del prezzo del petrolio, non ci si dovrebbe contare molto. A livello internazionale si continua a puntare sul fossile e si finge di non sapere che basta ben poco - come ha recentemente detto anche il premio Nobel Jeffrey Sachs - vista la distruzione di Gaza, che nessuno in Occidente agisce effettivamente per fermare, perché la guerra assuma dimensioni regionali o peggio, con il conseguente balzo dei prezzi degli approvvigionamenti energetici. 
La motivazione più forte appare quindi un’altra. Moody’s si rende conto che l’invecchiamento della nostra popolazione e il calo demografico in atto spingerà verso un innalzamento della spesa pensionistica, ma al contempo, avendo il governo fatta salva, anzi peggiorata, la legge Fornero, gli estensori della Nota confidano che “le autorità prenderanno misure per contrastare in parte queste pressioni”. In sostanza Moody’s plaude alle scelte economiche del governo e allo stesso tempo traccia i percorsi futuri lungo i quali, senza deflettere,  questo, o futuri governi, dovranno muoversi. 
Un inno all’austerità che il governo Meloni ha infatti messo in pratica con le scelte di bilancio, con una particolare cattiveria nei confronti dei pensionati (e del settore sanitario). Nessuno prima di Giorgetti aveva compresso in modo così stringente la  spesa pensionistica per tenere in equilibrio i conti pubblici. Oltre al ricalcolo retroattivo per alcune categorie del pubblico impiego (come per i medici, su cui si dice che si porrà un qualche rimedio), secondo calcoli di fonte sindacale, ma non smentibili da alcuno, il taglio delle indicizzazioni all’inflazione avrà un costo elevatissimo per chi di pensione vive. Prendiamo una pensione, pur non tra le più basse,  di 2.095 euro mensili nette. In due anni i suoi percettori perderanno 2.171 euro, in venti anni 28mila euro, sempre al netto delle tasse. 

E non è finita. A questo si aggiunge l’intenzione, già inserita nella manovra, di sostituire l’indice del costo della vita con il cd. “deflatore del Pil”. Anche l’Ufficio parlamentare di Bilancio (Upb), che pure ha mostrato di non disprezzare i risparmi nella spesa pensionistica, invita alla cautela su questo fronte, essendo il “deflatore” assai meno sensibile all’incremento dei prezzi specialmente nelle situazioni di crisi. Ad esempio nel 2022 se nel nostro paese si registrava un picco dell’inflazione dell’8,1%, il “deflatore del Pil” si posizionava sul 3%, con conseguente consistente perdita per le pensioni se fosse già entrato in vigore. 
Detto in parole povere sono i pensionati che salvano il rating del nostro paese e allontanano i titoli pubblici dalla spazzatura. Ma non vengono premiati, bensì’ puniti. Una volta arrivavano le lettere della Bce per delineare i percorsi dei governi - come quella famosa dell’agosto del 2011 –, ora bastano le valutazioni delle agenzie internazionali private di rating. E’ l’ennesima conferma che queste ultime sono e si comportano come articolazioni del sistema di governance del capitale globale. Il che sottolinea la urgente necessità che la Ue si doti di una agenzia pubblica, ovviamente indipendente tanto dalla Bce quanto dagli organi di governo politico della Ue,  per ciò che riguarda la valutazione sulla situazione debito dei paesi membri.

Fonte: Volere la luna online

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