di Maria Pellegrini

 

         Sabato 17 gennaio si sono dati appuntamento a Milano le sigle ultracattoliche in un convegno organizzato dalla giunta Maroni con uno scopo preciso: «Difendere la famiglia per difendere la comunità». Il concetto di fondo del convegno è imbarazzante: l’omosessualità è un malattia, la famiglia è solo quella «naturale formata da uomo e donna con i loro figli». Contro questa convinzione che l’omosessualità sia patologica, immorale, contro natura, socialmente pericolosa, invalidante e di conseguenza contro chi disprezza i comportamenti omosessuali e nega il diritto di rivendicazioni sociali e giuridiche degli omosessuali, migliaia di persone si sono radunate in piazza a Milano per protestare contro quella che considerano una deriva omofoba di un’istituzione, la Regione, che dovrebbe essere laica nel difendere i diritti fondamentali anche di chi ha un diverso orientamento sessuale e un diverso modello di famiglia.

        Questo sentimento omofobo, diffuso ancora in larghi strati della nostra società, mi ha indotto a pensare ai nostri antenati latini per i quali l’amore era dimensione terrena dell’uomo e quello che noi, repressi dalla morale cattolica, consideriamo ancora oggi osceno o malato, era vissuto con molta naturalezza e poteva trasfigurarsi diventando poesia o letteratura. I latini erano per nulla inibiti in materia sessuale e l’ampia sfera di manifestazioni affettive e comportamentali inerenti l’amore comprendeva anche l’amore omosessuale e prescindeva dal fine della riproduzione.

         La spregiudicatezza nel trattare argomenti riferiti alla sessualità e alla omosessualità si manifestò nel I sec. a.C. in Catullo, preceduta da liriche amorose dei poeti che furono definiti preneoteroi, per indicarne il carattere di precursori di alcuni decenni dei neoteroi, termine greco, equivalente al latino poetae novi, per significare la loro novità e modernità rispetto ai grandi poeti dell’età arcaica. Lutazio Catulo fu la figura di spicco di quest’avanguardia decisamente innovatrice che sconvolse non solo la cultura romana tradizionale, ma anche le stesse basi politiche e ideologiche sulle quali una volta poggiava la repubblica: si diffuse infatti il concetto della poesia come lusus, cioè gioco raffinato, destinato all’otium e l’affermazione dell’assoluta libertà del poeta, che obbedisce soltanto ai propri impulsi affettivi e si concentra sul labor limae, cioè su una raffinata elaborazione stilistica, sulla cesellatura del verso e sulla perfezione formale.

        Emerse una sensibilità nuova tendente a ritrarre il microcosmo della vita quotidiana, la poesia si trasferì nella sfera privata rifiutando quella funzione civile e politica della letteratura che per i poeti dell’età arcaica aveva costituito il senso e la giustificazione dei propri versi, tesi a celebrare, sia nei poemi epici che nel teatro, la potenza e i valori della Roma repubblicana. Tra i temi ispiratori assunse un rilievo particolare l’amore, legato sia a vicende autobiografiche che a quelle dei personaggi del mito secondo l’impostazione mitologica ed erudita tipica della poesia ellenistica, soprattutto di Callimaco, il poeta di Cirene della prima metà del III secolo, che aveva sostenuto una battaglia di rinnovamento contro i poeti arcaicizzanti, epigoni di Omero. Notevole da parte di questi poeti fu anche la sperimentazione linguistica e morfologica.

 

         Perché si era allentato il vincolo che legava il civis romano allo Stato e verificato un progressivo disinteresse per il teatro e per l’epica tradizionale celebrativa delle glorie nazionali e finalizzata a esaltare valori collettivi?

        L’ultima fase della repubblica romana, tra gli ultimi decenni del II a.C. e la metà del I a. C., fu un periodo di turbolenti avvenimenti, caratterizzato da grande violenza di passioni e da forte inasprimento della lotta per il potere. Fu età di guerre interne ed esterne: la sanguinosa repressione del movimento riformatore dei Gracchi, la guerra “sociale” contro gli antichi alleati italici (socii), la rivolta degli schiavi guidati da Spartaco, la guerra civile con alterne sorti fra Mario e Silla, le loro spietate proscrizioni contro gli avversari politici; la secessione ispanica di Sertorio, la congiura di Catilina; la scalata al potere di Pompeo allo scopo di consolidare l’egemonia della classe senatoria, poi il dissidio tra i due potentati, quello di Pompeo e quello di Cesare, che sfocerà in un nuovo conflitto civile. A tutto ciò seguirono inevitabili squilibri economici e sociali che generarono sfiducia nelle istituzioni repubblicane. Non è più il tempo di alte idealità mentre si assiste al crollo dello stato repubblicano ormai inadeguato a garantire concordia sociale e stabilità politica, Si afferma dunque una nuova forma di poesia, di natura essenzialmente lirica e soggettiva, ispirata a modelli provenienti dall’ambiente culturale greco-alessandrino.

        A questa evoluzione non fu estranea la diffusione dell’epicureismo - con la sua propaganda per il disimpegno dalla politica - che trovò subito accoglienza fra le classi elevate: desiderose di pace abbandonarono i doveri del civis per abbracciare l’otium e affermare la propria individualità.

        Intorno a Lutazio Catulo si raccolsero un gruppo di poeti, la cui attività si può collocare a cavallo tra la fine del II e l’inizio del I secolo a. C. Il loro sodalizio si basava su una affinità di gusti e orientamenti letterari con caratteristiche diverse da quelle dei poeti raccolti in seguito intorno a Mecenate e Messalla, impegnati nell’esaltazione dell’attività civile e politica di Augusto. In ogni caso, sia singolarmente, sia nel loro insieme, costituirono una novità e una contrapposizione alla tradizione letteraria romana.

        Lutazio Catulo, fu un letterato di raffinata cultura e dotato di un elegante stile oratorio. Nella sua villa sul Palatino riuniva politici illuminati e poeti, ospitò in casa sua i poeti greci in un momento in cui s’intensificava l’afflusso d’intellettuali greci e la città stava diventando la nuova capitale culturale del mondo antico. La vittoria di Lucio Emilio Paolo a Pidna contro Perseo, ultimo re di Macedonia (168 a.C.), apre un ventennio di pace e di assimilazione della cultura greca  e la classe aristocratica più lungimirante aveva ormai superato i pregiudizi di Catone che rimpiangeva il buon tempo antico quando era disprezzato chi si dedicasse alla poesia d’amore. Vissuto in un’epoca di transizione è il primo uomo politico che a Roma scrive poesie leggere e sentimentali, e si accosta alle lettere per puro piacere intellettuale ed estetico, senza alcuna implicazione di tipo politico o sociale.

         A dispetto dell’ideologia conservatrice, che avrebbe dovuto indurlo a un impegno letterario finalizzato all’utilità sociale, Lutazio Catulo mise in poesia le proprie esperienze amorose, per giunta di tipo pederotico Di lui restano due epigrammi. Nel primo il poeta personifica il proprio cuore “fuggitivo” come uno schiavo e immagina che si sia rifugiato, nonostante i suoi tentativi di impedirlo, presso l’amato Timoteo, un giovane sotto il cui nome ellenizzante forse si cela un personaggio reale. Il tema dell’amore per un ragazzo (èros paidicòs) era tipicamente greco:

 

Il mio cuore è fuggito: credo che sia come al solito

da Teotimo. È proprio così, è là il suo rifugio.

Cosa? Gli avevo pur detto di non ricevere in casa

quel fuggitivo, anzi di cacciarlo via!

Andrò a cercarlo, ma temo di essere io stesso catturato.

Che fare? Dammi, o Venere, un consiglio.

 

        Il secondo epigramma, si apre col motivo rituale del saluto all’Aurora per poi elogiare la bellezza del giovane Roscio, quel Quinto Roscio Gallo che diventerà un celebre attore, divenuto quasi un mito come ci testimonia Cicerone. Una novità è la dichiarazione che Roscio, un mortale amato dal poeta, sia più bello di una divinità. Il centro poetico di questo epigramma è proprio nel confronto, tra il bellissimo Roscio amato dal poeta e l’Aurora.

 

Mi ero fermato a salutare l'aurora che spuntava,

quando improvvisamente spunta Roscio a sinistra.

Sia detto senza offesa a voi, dei del cielo

ma un mortale mi parve più bello di un dio.

 

         Possiamo dunque affermare che le prime liriche nella storia letteraria latina furono d’amore omosessuale, nonostante ci fossero in atto anche allora crociate moraliste dei laudatores temporis acti (coloro che lodano il tempo passato), cioè dei conservatori più convinti, chiusi a qualsiasi rinnovamento, incapaci di cogliere le innovazioni del presente e di adeguarsi al progresso.

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