È proprio vero che negli ultimi anni la “lobby dei poveri” è entrata nei palazzi di potere. Il Reddito di cittadinanza nel 2019 ha spostato, per la prima volta nella storia della Repubblica, 8 miliardi di euro l’anno dalla fiscalità generale ai due decimi più poveri della distribuzione del reddito, determinando così per la prima volta dagli anni 90, una riduzione della disuguaglianza e del rapporto tra il 20% più ricco e il 20% più povero nel Paese. 

Anche la revisione peggiorativa del governo Meloni, che fa fuori circa 600 mila nuclei definitivamente dal Rdc (nel senso che in virtù dei criteri rigidi di accesso non entreranno nel nuovo programma), 
lascia comunque una spesa di circa 5 miliardi per circa 700 mila nuclei che prenderanno l’assegno di inclusione, e rappresenta una risorsa inimmaginabile per i governi fino al 2018, che al massimo avevano destinato 1,5 miliardi alla lotta alla povertà.

Il decreto Dignità nel 2018, dopo anni di flessibilità selvaggia, ha aggredito per la prima volta la flessibilità del lavoro che diventa precarietà, ponendo delle causali come giustificazione per l’utilizzo del lavoro temporaneo, al fine di eliminare abusi e limitare la precarietà di reddito e la condizione di instabilità dei lavoratori. 
Provvedimento che persino nel 2023 dà ancora buoni frutti, restringendo lo spazio per il lavoro a tempo determinato almeno fino a maggio 2023. 

La revisione, anche questa peggiorativa, del governo Meloni, effettuata col cosiddetto decreto 1° maggio, non abolisce definitivamente il dl Dignità, ma affida alle parti (aziende e lavoratori) la facoltà di derogare alle causali. 

Come dire, il governo si lava le mani delle responsabilità della precarietà e, non tenendo conto del fatto che il lavoratore è un anello debole nel rapporto di lavoro, lo abbandona a se stesso: nel prossimo futuro il lavoro temporaneo aumenterà ulteriormente, ma anche qui la lobby dei precari è rimasta e governo di destra deve tenerne conto.

E arriviamo al salario minimo, anche questa battaglia inizia nella precedente legislatura, quando la lobby dei lavoratori poveri e con salari bassi entra nei palazzi di potere. 

Oggi diventa linguaggio dominante, da cui non si può rifuggire, che viene addirittura esplicitato dalla presidente del Consiglio (nelle sue dichiarazioni di venerdì dopo l’incontro con le opposizioni), che però non ha soluzioni o anche qui non vuole responsabilità e si affida al Cnel. 

Oggi, secondo i dati Inps, i lavoratori con bassi salari (meno di 1.000 euro mese) sono il 29% e oltre 4 milioni guadagnano meno di 9 euro lordi l’ora. 
I settori in cui si concentrano i bassi salari sono i servizi, la ristorazione il turismo, il commercio, la logistica, i trasporti, i servizi alla persona, le pulizie, la vigilanza, l’agricoltura. 

La contrattazione collettiva non riesce, soprattutto in questi settori, ad alzare i salari: sono i settori più frammentati dell’economia, dove esiste molta contrattazione pirata, con lavoratori meno sindacalizzati e rapporti di lavoro caratterizzati da temporaneità e alto turn over. 

Anche per questo è necessario un salario minimo legale, che sicuramente non sarebbe di intralcio alla buona contrattazione in migliori settori dell’economia, e non potrebbe abbassare sotto i 9 euro il salario orario. Ma eviterebbe sfruttamento.

Ricapitoliamo: il numero dei poveri assoluti è salito a 5,6 milioni di persone, abbiamo circa 3 milioni di lavoratori precari e in media ogni anno circa 4,2 milioni di rapporti di lavoro a termine, sia nel pubblico che nel privato. 
Tasse e bassi salari comprimono la classe media tanto da renderla quasi indistinguibile dai lavoratori più poveri. 

L’inflazione negli ultimi due anni ha eroso circa il 15% del loro potere d’acquisto e le rinunce nei consumi sono cresciute. 
La disoccupazione giovanile intorno al 25% è tra le più alte in Ue e i nostri giovani laureati con fatica trovano lavoro adeguato 
alla loro professionalità e sempre più spesso emigrano all’estero. 

C’è un’area del disagio economico di circa 12 milioni di persone che sta determinando finalmente il linguaggio del potere: disoccupati, persone povere inattive, precari, giovani insoddisfatti, lavoratori poveri, e classe media che sprofonda. 
Una platea molto vasta e solo 
parzialmente sovrapponibile.

Tuttavia quest’area di disagio evidenza anche che le disuguaglianze sono esplose e che ci avviciniamo pericolosamente verso un modello economico caratterizzato da bassi consumi e bassi salari, con crescita economica, dove c’è, trainata prevalentemente dalle esportazioni. 

Un modello che vuole fare competizione sul costo del lavoro piuttosto che sull’innovazione, con meno industria e più servizi a basso contenuto tecnologico, e sfruttamento del lavoro. 

Un modello che si addice più a un’economia emergente, ad un paese piccolo, piuttosto che ad un’economia matura con una popolazione medio-grande come la nostra.

Fonte: Il Fatto Quotidiano

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