Ha raccontato Franz Bertagnoli, uno dei componenti del battaglione di polizia Bozen aggregato alle SS, colpito dai fascisti a Roma a via Rasella: «Pretendevano che noi sfilassimo per le strade sempre cantando a squarciagola, come tanti galli, petto in fuori, a urlare in continuazione un cadenzato chicchirichì». Cantavano anche sfilando in via Rasella, armati fino ai denti, tanto che – come racconta un altro di loro, Konrad Sigmund – «avevamo tutti cinque o sei bombe a mano attaccate alla cintola , e ne esplosero parecchie, colpite dalle schegge, altre per il calore dell’incendio che si sviluppò». Se fossero stati meno armati ne sarebbero morti di meno.

Ma ci vuole poco a trasformare una banda armata in una banda musicale, come ha fatto adesso una delle massime autorità della Repubblica (non la prima, nata dalla Resistenza, ma la seconda o la terza, per la quale la Resistenza è un intralcio).

Ai bambini del quartiere, quei soldati che marciavano cantando (riluttanti) piacevano assai, e gli andavano appresso. Nella loro memoria infantile questa immagine si trasforma in quella di una banda di innocui musicisti («l’armi che ciavevano quelli erano la tromba e il tamburo», mi ha raccontato uno di loro, figlio di un ucciso alle Ardeatine), e da lì si diffonde nel senso comune antipartigiano e anti-antifascista, intrecciandosi con tutta la mitologia su via Rasella e le Ardeatine – i poliziotti-SS nazisti «erano vecchi», i partigiani «dovevano presentarsi», «li hanno uccisi solo perché erano italiani», «c’era la regola dei dieci italiani per un tedesco», «la rappresaglia è autorizzata dal diritto internazionale» e così via.

Basta informarsi per sapere che queste cose non sono vere.

Per fare un esempio: ci sentiamo ripetere in tutte le salse che «la rappresaglia era autorizzata del diritto internazionale». Però, (a parte il fatto che si trattasse di regole già allora anacronistiche), proprio perché era autorizzata la rappresaglia era anche regolata: per essere legittima doveva rispettare certe modalità, proporzioni, selezione delle vittime.

Nel 1949, il tribunale militare italiano del processo Kappler dichiarò che nessua di queste norme era stata rispettata e pertanto non si doveva parlare di rappresaglia ma di «omicidio continuato».

Aggiungiamo: la rappresaglia non era automatica, e che non esisteva nessuna «regola dei dieci italiani per un tedesco»: a Civitella in Val di Chiama ne ammazzarono 156 per 3, a Boves in Piemonte 19 per uno; e anche a Roma l’ordine di Hitler era di 50 a 1.

Ma si continua impunemente a parlare di rappresaglia e dieci-a-uno, inquinando il senso comune e legittimando arbitrariamente il crimine nazifascista.

Ora, finché queste storie circolano come folklore, sono un problema ma ci si può lavorare, come su tutte le credenze popolari. Quando diventano verità di Stato proclamate dal presidente del Consiglio e dal presidente del Senato (e propalate su stampa e TV da “fior” di giornalisti che evidentemente non sanno fare il loro mestiere), queste favole diventano una minaccia non solo alla verità storica ma al processo democratico stesso: come si fa a discutere civilmente con chi è impermeabile ai fatti perché ha un bisogno disperato di credere a queste cose (o di raccontarle pure sapendo che non sono vere) perché se no dovrebbe interrogarsi sulle fondamenta stesse della sua identità politica?

Ma poi, quando un’altra voce autorevole esprime solidarietà a «donne e uomini» uccisi alle Ardeatine senza sapere che gli uccisi dentro quelle cave erano tutti uomini (una donna fu uccisa quasi accidentalmente, ma fuori), allora la domanda è un’altra: che classe dirigente abbiamo? Perché se dall’alto dei loro scranni mediatici e istituzionali politici e “fior” di giornalisti parlano su queste cose a vanvera senza sapere di che parlano e senza nessuno che li aiuti a informarsi (ma non hanno fior di ben retribuite staff?), che speranza abbiamo che non agiscano con la stessa incompetenza, disonestà e disinformazione quando parlano di Pnrr o altre cose che ci riguardano tutti i giorni? In altre parole: in che mani siamo?!

Fonte: Il Manifesto

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