di Maria Pellegrini.

Il diplomatico greco Manolis Androulakis di ritorno ad Atene da Mariupol ha detto: «Quello che ho visto, spero che nessuno lo veda mai». Ed ha aggiunto che «la città si stava unendo alla schiera di luoghi noti per essere stati distrutti nelle guerre del passato: Guernica, Coventry, Aleppo, Grozny, Leningrado».

Dai libri di Storia apprendiamo che lungo lo scorrere dei secoli si sono susseguite guerre con migliaia di morti, violenze sui civili e città rase al suolo. Scrittori della Roma antica, repubblicana e imperiale, hanno narrato di guerre, stragi, distruzioni di città dopo lunghi assedi per lasciare ai posteri memoria “di che lagrime grondi e di che sangue” la lotta per il potere di Roma che, senza dubbio, si configura come un’aggressiva e vorace potenza imperialista.

Esempi di distruzioni di città dopo lunghi assedi non mancano: Cartagine e Corinto nel 146 a.C, Numanzia nel 133 a. C., Alesia nel 52 a. C, e anni più tardi sotto Vespasiano e Tito, Gerusalemme nel 70 d.C.

Cartagine, ricca colonia fenicia sulle coste nordafricane e padrona incontrastata del Mediterraneo occidentale, si scontrò con Roma in tre guerre, alla fine delle quali dopo un lungo assedio knell primavera del 146 a. C. i legionari romani riuscirono ad aprirsi un varco nelle mura di Cartagine e metterla sotto assedio. Lo scontro si prolungò per altri sei giorni, nei quali i pochi abitanti rimasti in vita, insieme a un migliaio di disertori romani, si rifugiarono nel tempio posto sull’acropoli. I Romani riuscirono a stanarli solamente dando alle fiamme il tempio. Scipione Emiliano promise salva la vita a chi si fosse arreso e fosse uscito disarmato dall’acropoli. Fu così che molti, tra cui Asdrubale stesso, deposero le armi. Infine Scipione Emiliano abbandonò la città al saccheggio: Cartagine, comprese le mura e il porto, fu rasa al suolo. A coloro che si erano arresi fu fatta salva la vita come promesso, ma furono venduti dai Romani come schiavi. Si dice anche che i vincitori compirono la rituale maledizione sulle rovine della città spargendo il sale, per evitare che neppure l’erba rispuntasse su quella terra. Fu così che nel 146 a. C. il territorio che un tempo era controllato da Cartagine diventò provincia romana.

Si dice che Scipione, vedendo la città finire allora nella rovina più completa, scoppiò in lacrime, e rimase a lungo a meditare sul destino e le sorti dei regni e degli imperi degli umani.

In quello stesso anno 146 a.C. La guerra acaica fu uno scontro bellico che oppose la Repubblica romana alla Lega achea. La guerra si risolse nella distruzione della città di Corinto.

La città fu saccheggiata: le ricchezze e le opere d’arte furono disperse, cioè utilizzate per l’abbellimento di Roma, di varie città italiane e provinciali. «Perì in tal modo la città che era, in tutta la Grecia, più pulsante di vita operosa per le sue industrie e per i suoi commerci nei due mari su cui si aprivano i suoi porti, la più popolosa fra le città greche dopo il declinare di Atene e la seconda per popolazione fra tutte le città europee», scrive lo storico De Sanctis.

Roma si accampava così da Oriente a Occidente su tutto il Mediterraneo imponendo la “pax romana”.

Nel 150 a. C. i Lusitani, popolo della parte occidentale della penisola iberica. tentano di ribellarsi al pretore romano Galba che finge comprensione per le loro scorrerie perché spinti dalla povertà. Leggiamo in Le guerre di Spagna dello storico Appiano (II secolo d.C): «È la vostra sterile terra che vi spinge a ciò. Io vi condurrò ad abitare in terreni floridi dividendovi in tre gruppi». I Lusitani abbandonarono le loro sedi e i propri beni e si raccolsero in tre luoghi diversi aspettando che il pretore arrivasse a fondare le rispettive città. Ma a tradimento Galba ordinò a un gruppo dopo l’altro di abbandonare le armi e una volta che quelli le ebbero deposte «li recinse con un fossato e lanciò contro di loro soldati armati di spada e li sterminò tutti mentre essi levavano grida disperate e invocavano i giuramenti presi nel nome degli dei».

I Romani stroncarono definitivamente la loro resistenza nel 133 a. C. con la distruzione di Numanzia, (città situata in posizione dominante sopra il fiume Duero) compiuta da Scipione Emiliano che strinse la città in un durissimo assedio costringendo gli assediati alla resa per fame. Per la disperazione si erano nutriti di carne umana. Infine si arresero a Scipione, alcuni si dettero volontariamente la morte. «Scipione ne scelse 50 tra loro da far sfilare nel suo trionfo, vendette gli altri e distrusse Numanzia dalle fondamenta».

Un assedio reso famoso dal De bello gallico di Giulio Cesare fu quello della città di Alesia durante le guerre in Gallia.

La morte di Crasso, ucciso dai Parti nella battaglia di Carre (53 a. C.), segnò la fine del triumvirato. I gravi disordini seguiti all’uccisione di Clodio da parte dei seguaci di Milone (52 a.C.) trattennero Cesare in Italia. Della sua assenza approfittarono i Galli per ribellarsi contro il dominio romano. Il segnale della rivolta fu dato dai Càrnuti che massacrarono a Cenabo (Orléans) tutti i cittadini romani là residenti. A queste notizie il proconsole lasciò l’Italia: era l’ultimo e più tragico anno della guerra gallica.

L’insurrezione, propagatasi a quasi tutte le popolazioni e tribù, era guidata da Vercingetorige, capo degli Arverni, il popolo più importante della Gallia meridionale ed anche il più ricco e civile di tutta la Gallia, in buoni rapporti con Roma fino a quel momento. Vercingetorige, giovane nobile di grande autorità e prestigio, ostile alla oligarchia dominante e in parte filoromana del suo Paese, mirava alla monarchia sul suo popolo e a renderlo di nuovo indipendente. Cesare, lasciata l’Italia, raggiunse immediatamente le legioni in Gallia; secondo il suo costume, con una marcia rapida e audace attraversò le Cevenne coperte di neve, piombò sulla terra di Vercingetorige e la mise a ferro e fuoco. Dopo numerosi assalti e gravi perdite Cesare spostò l’assedio alla fortezza di Alesia, dove si era rifugiato Vercingetorige che attendeva rinforzi dagli alleati. Intanto sono terminate le provviste, riuniti in assemblea, alcuni sono favorevoli alla resa, diverso è il parere di Critognato, di cui Cesare riporta il discorso in forma diretta rimarcandone la fierezza e la crudeltà. Le sue parole sono un implacabile atto di accusa contro i Romani che vogliono insediarsi nei territori e nelle città di popoli un tempo gloriosi assoggettandoli a una perpetua schiavitù. Il suo discorso è uno dei pochi passi della storiografia latina in cui l’imperialismo romano sia visto da parte dei popoli assoggettati e presentato nella sua spietata logica di asservimento e sfruttamento. L’assedio costò numerose e cruente battaglie, ma si concluse con l’espugnazione della roccaforte e la resa del Gallo ribelle, costretto in seguito a sfilare in catene nel corteo trionfale in onore di Cesare e poi ucciso.

Essendo la Gallia definitivamente domata, Roma portava i confini della repubblica dalle Alpi alla Manica e al Reno.

Un assedio che fu dettagliatamente raccontato fu quello della città di Gerusalemme riportato dallo storico ebreo Giuseppe Flavio, che era stato uno dei capi della rivolta contro i romani nella Galilea settentrionale ma che successivamente si era arreso alle truppe di Tito divenuto loro alleato.

Secondo quanto fu da lui riportato nell’opera scritta in greco Guerra giudaica, i prigionieri furono 97.000 e i morti 1.100.000. Importanti testimonianze dell’assedio sono quelle fornite da Tacito nelle Historiae (V, 11-13) Quando Tito si accampò davanti alle mura di Gerusalemme si verificarono numerose scaramucce davanti alle porte, ma i difensori furono ricacciati dentro le mura., Tito decise di predisporre l’assedio. I soldati chiedevano a gran voce di affrontare i rischi, alcuni spinti dal loro valore, altri dalla ferocia e dalla cupidigia di premi. Tito stesso aveva davanti agli occhi Roma, le ricchezze e i piaceri che sarebbero tardati se Gerusalemme non cadeva immediatamente. «Ma la città, già impervia, era stata fortificata con opere che avrebbero garantito abbastanza anche una posizione piana. Due colli altissimi erano cinti da mura costruite volutamente trasversali o rientranti in modo che gli assedianti si trovassero ad avere i fianchi scoperti. I margini della roccia erano scoscesi e si innalzavano torri alte sessanta piedi dove la montagna aiutava, centoventi in pianura: erano imponenti». All’interno, un’altra cinta muraria circondava la reggia ed era particolarmente considerevole la torre Antonia. Il tempio era costruito come una piazzaforte con una propria cinta muraria; i portici stessi che lo circondavano costituivano un’eccellente fortezza. C’era una fonte perenne, scavi nella montagna, piscine e cisterne per conservare l’acqua piovana. I fondatori avevano previsto che a motivo della diversità di civiltà ci sarebbero state frequenti guerre; di conseguenza, c’era tutto quello che poteva servire per un assedio comunque lungo. «Il numero degli assediati, uomini e donne di tutte le età, ammontava a seicentomila; tutti quelli in grado di portare armi ne avevano a disposizione, e un numero maggiore di quanto sarebbe stato proporzionato era disposto a osare tutto. Uomini e donne avevano la stessa ostinazione: se li si obbligava a lasciare la patria, avevano più paura di vivere che di morire».

Contro questa città Tito, visto che il luogo impediva gli assalti e i colpi di mano, stabilì di agire con le trincee e le macchine da guerra; furono ripartiti i compiti tra le legioni e non ci furono azioni fin quando non si misero in opera tutte le tecniche d’assedio scoperte da antichi e moderni. Alla fine Gerusalemme venne espugnata con un assedio per fame. Non c’è rimasto il racconto di Tacito perché quei capitoli delle Historiae sono andati perduti. Troviamo la spaventosa fine della città rasa al suolo nell’opera di Flavio Giuseppe che chiude così:

«Chiunque fosse arrivato in quel luogo non avrebbe mai creduto che vi sorgeva una città. Tale dunque, per colpa dei pazzi rivoluzionari, fu la fine di Gerusalemme, una città ammirata e famosa in tutto il mondo». (Guerra Giudaica, VII, 1,4).

Come si legge nei Vangeli, Gesù Cristo alcuni giorni prima di essere messo in croce davanti al tempio di Gerusalemme aveva predetto alla città la sua distruzione e la morte di tutti i suoi abitanti: «Verranno per te momenti terribili, quando i tuoi nemici ti faranno attorno delle trincee, e ti circonderanno e ti assaliranno da ogni parte; distruggeranno te e i tuoi figli e non lasceranno in te pietra sopra pietra». (Evangelista Luca 19, 43).

Immagine: Busto di Gaio Giulio Cesare, Musei Vaticani.

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