di Luz Beathens e Matteo Polleri - DinamoPress.

Due del pomeriggio, Medellín, Colombia. Per via dell’inquinamento e del caldo anomalo, sembra un’impresa arrivare dal centro alla Comuna 13, storica zona popolare abitata dagli “strati 1, 2 e 3”, i più poveri del paese. Dai finestrini della metro, affollata e perfettamente funzionante, si scorgono in lontananza i grattacieli del Poblado, l’area urbana privilegiata, con le Ande sullo sfondo. Avvicinandosi al capolinea si spalanca una distesa di case di mattoni con tetti in lamiera, arrampicate sulle pendici delle montagne e collegate tra loro dal metrocable, il sistema di funivie della città. Nell’edificio di Casa Kolacho incontriamo Ciro, abitante della Comuna e rapper, tra i leader del progetto, insieme ad altre artiste e attiviste della comunità, nonché ad alcuni delegati dei programmi sociali del governo di Gustavo Petro e Francia Márquez.

Il quartiere nel quale ci troviamo è stato al centro del conflitto armato che ha scolvolto la Colombia negli ultimi sessant’anni. Esso sta inoltre accompagnando il processo di pace e le trasformazioni sociali e politiche in corso nel paese nell’ultimo periodo. Potresti darci qualche elemento sulla storia della Comuna 13?

Tanto per cominciare, la Comuna di Medellín non ha niente a che vedere con la Comune di Parigi [ridacchia]. L’amministrazione territoriale colombiana prevede che alcuni insiemi di quartieri, caratterizzati da condizioni socioeconomiche simili, siano riconosciuti come comunas. La numero 13 di Medellín si è formata con l’arrivo di migliaia di desplazados del conflitto armato che ha opposto, a partire dagli anni Sessanta, governo, organizzazioni rivoluzionarie armate (circa 25 formazioni, nel momento di massima intensità), cartelli narcos e paramilitari. Con il conflitto, molte persone fuggono dalla campagna e costruiscono delle abitazioni precarie, arrampicate sulle montagne ai margini della città. La Comuna 13, il cui controllo risulta strategico per gestire le rotte della coca, vive tre grandi ondate di violenza armata. Negli anni Ottanta, godeva di un riconoscimento istituzionale soltanto formale, ma era di fatto in stato di completo abbandono, senza servizi primari (acqua, elettricità, fogne, salute, educazione).

Questa è quella che ricordiamo come la prima fase di violenza: estorsioni, omicidi, stupri e altri delitti comuni erano all’ordine del giorno. È in questo momento che le FARC e l’ELN, le principali formazioni guerrigliere marxiste, sopperiscono all’assenza dello Stato, fornendo servizi elementari e infrastrutture fondamentali, nonché livelli minimi di sicurezza per le circa 160.000 persone che abitavano nella Comuna. Per lungo tempo, sono loro a svolgere funzioni di governo e a detenere il monopolio della forza. Durante gli anni Novanta entriamo nel secondo ciclo di violenza: con l’acuirsi del conflitto armato, si formano le maggiori strutture paramilitari colombiane. È qualcosa difficile da capire, soprattutto dal punto di vista europeo, perché i paramilitari vengono spesso presentati come un’altra forma di guerriglia, mentre si tratta di mercenari al soldo del miglior offerente: multinazionali, latifondisti, narcotrafficanti, politici della destra e ultradestra colombiana. Potremmo dire che il paramilitarismo è la vera “mano invisibile” smithiana di questi poteri economici e politici, quel mezzo con cui fare ciò che, legalmente, sarebbe inconcepibile.

Guerriglia marxista e paramilitari si scontrano per il controllo del territorio e la Comuna è uno degli epicentri di questo scontro. Negli anni Duemila inizia il terzo ciclo di violenza armata. Il governo entra nel conflitto alleandosi con i paramilitari per ottenere il controllo del quartiere. Siamo all’inizio della presidenza di Álvaro Uribe: tra il 2001 e il 2002 ventuno operazioni militari speciali vengono condotte nella Comuna contro la guerriglia. La più nota è l’Operacíón Orión. Esercito e paramilitari mobilitano due elicotteri e diversi tank con l’obiettivo di conquistare il territorio a qualunque costo, cioè a ferro e fuoco; conquistare, ribadisco, e non “riconquistare”, perché lo Stato non era mai stato presente nella zona. Durante le operazioni, militari e paramilitari impongono un regime di assassinio, tortura, stupri sistematici, spostamenti forzati e omofobia massiccia sulla popolazione, con un bilancio di migliaia di morti e centinaia di desaparecidos. Oltre alle leader comunitarie del quartiere, tutte le persone che si erano viste costrette a pagare la “tassa di guerra” alle organizzazioni rivoluzionarie erano considerate membri attivi della guerriglia, e per questo obbligate a pagare pene di sangue. Amici, familiari e conoscenti dei guerrilleros erano considerati anche loro militanti della guerriglia. La politica della “sicurezza democratica” di Uribe scavò, in questo periodo, la più grande fossa comune dell’America Latina. Per fare un confronto, durante i diciassette anni e mezzo della dittatura di Pinochet in Chile, i desaparecidos sono stati circa 1.500. Uribe ne ha lasciati 500 in due anni solo nella Comuna 13 di Medellín.

Ed è in questo contesto di violenza che, gradualmente, si riuniscono le energie culturali, sociali e politiche che daranno vita al progetto di Casa Kolacho…

Si tratta di un lungo processo di transizione, che ha inizio nel 2002 proprio durante la terza ondata di violenza per mano del governo di Uribe. Nel clima di terrore e di morte appena ricordato, i ragazzi del quartiere iniziano a denunciare la violenza tramite canzoni e graffiti sulle pareti della Comuna. Nonostante il pericolo, si formano i primi laboratori artistici e musicali e, nel settembre 2002, a pochi giorni dalla Operación Orión, il quartiere risponde con la “Operación hip-hop”, il primo grande concerto rap della Comuna, al motto di «porqué en la trece la violencia no nos vence», che rimane tutt’oggi il nostro slogan. Negli anni successivi, il controllo paramilitare era talmente soffocante che ogni voce dissonante veniva sanzionata anche con la morte. In questo periodo, il gruppo continua a crescere. Si comincia a parlare di «revolución sin muertos», perché laddove i diversi gruppi armati e narcos offrivano bombe, elicotteri e mitragliatori, noi ritenevamo necessario trasformare la società senza spargere altro sangue. Invece delle armi, moltiplichiamo concerti e attività, ripopolando lo spazio pubblico. Si tratta di iniziative a sostegno della vita, in un luogo nel quale la vita non aveva valore, perché, una volta debellate le formazioni guerrigliere con i mezzi di cui sopra, diverse strutture paramilitari e narcos continuavano a disputarsi il comando della città e della Comuna. Tutto questo sempre a spese degli abitanti, che non potevano spostarsi da una zona all’altra senza rischiare di incrociare le linee di fuoco.

Nel 2009 viene assassinato Kolacho, membro attivo dei laboratori artistici e musicali, al quale intitoliamo dunque il progetto; nei tre anni successivi altri otto compagni del movimento hip-hop della Comuna vengono a loro volta uccisi, compreso El Duque, uno dei fondatori del gruppo. In questa fase, lavorando con le donne vittime del conflitto, sentiamo la necessità di andare oltre la musica e fondiamo Casa Kolacho: un centro sociale e culturale polivalente, nel quale si incrociano molteplici iniziative e percorsi, per offrire alle nuove generazioni alternative di vita diverse dalle armi, per gli uomini, e da un destino di dominio e abuso, per le donne. Tramite la nostra scuola popolare, dicevamo loro che potevano scrivere, cantare, ballare e studiare; che non erano costrette a seguire le orme dei genitori, a loro volta obbligati a integrare una spirale di violenza senza fine. L’arte e la cultura sono per noi uno strumento politico per cambiare il modo di pensare e di fare della gente e in primo luogo di noi stessi. Con questo mezzo ci riprendiamo le strade e trasformiamo un territorio colpito dalla fame e dalla guerra, passando dall’essere la zona più violenta dell’America Latina a modello esemplare di cambiamento sociale.

Come organizzazione sociale, Casa Kolacho ha partecipato alle varie fasi della politica colombiana dell’ultimo decennio. Dai governi Santos I e II e gli accordi di pace con le FARC, firmati a L’Avana nel 2016, fino all’estallido social del 2019-2020, passando per le politiche neoliberali del presidente Duque e la pandemia da COVID-19. Qual è stato il vostro ruolo in questo contesto?

Le organizzazioni sociali hanno svolto un ruolo fondamentale nell’ultimo decennio, in particolare durante il processo di pace, battendosi non solo nei territori ma anche nei tribunali, e ottenendo un posto nei tavoli di negoziazione tra FARC e governo a L’Avana. Bisogna sottolineare che, dal nostro punto di vista, i governi di Santos, Uribe e Duque sono stati equivalenti nei loro effetti mortiferi. Sebbene sia stato presentato come “moderato”, Santos, come gli altri, ha favorito la militarizzazione e para-militarizzazione dei territori, oltre alla collusione con il narcotraffico. L’assenza di investimenti nell’agricoltura, nella cultura, nelle politiche sociali, nell’educazione, nella salute, nello sport e, più in generale, il programma economico neoliberale hanno colpito duramente il paese. Insomma, Santos non ha frenato il massacro paramilitare e il dilagare del narcotraffico, ma ha dovuto accettare di negoziare con una parte della guerriglia. In questa fase, e unicamente su questo punto, Santos ha lavorato con le organizzazioni sociali per avanzare nelle negoziazioni di pace.

Il governo Duque, dal canto suo, è tornato a perseguire ciecamente la politica narco-paramilitare di Uribe, saccheggiando quel poco di sistema sanitario, di apparato culturale e educativo e di assistenza sociale che esisteva in Colombia. Questo governo, continuando con il modello uribista, ha favorito l’assassinio di militanti, leader sociali ed ex-guerriglieri coinvolti nel processo di pace, erodendolo dall’interno. Durante il governo Duque, a fronte di una riforma tributaria a favore dei ricchi, dell’evidente aumento delle violenze contro i leader ambientalisti, contro le mobilitazioni studentesche e quelle campesine, iniziamo a scendere in strada e protestare. È il 2019, un momento fondamentale per i movimenti in altri paesi dell’America Latina e oltre, l’anno delle sollevazioni sociali in tutto il mondo. In più, nel 2020 entrano in gioco la pandemia e le politiche di confinamento, durante le quali la popolazione si impoverisce ulteriormente e la violenza paramilitare si fa ancora più intollerabile.

A questo punto esplode di nuovo l’estallido e il governo risponde con la repressione. Si tratta dell’anno che precede le elezioni dell’estate 2022, nelle quali, per la prima volta nella storia della Colombia, vince un’alleanza politica di sinistra. Gustavo Petro, ex-militante della formazione guerrigliera M-19, e Francia Márquez, attivista legata ai movimenti afrodiscendenti ed ecologisti, sono eletti come presidente e vice-presidente. Come avete vissuto questo periodo nella Comuna?

Immaginate una situazione con la gente alla fame, rinchiusa in casa, senza sussidi, con una corruzione dilagante, i paramilitari che assassinano gli attivisti nei quartieri popolari e nelle campagne e il governo che svende il paese al capitale straniero e arricchisce i grandi proprietari nazionali. Con la quarantena molte persone finiscono indebitate, perdono la casa, muoiono di fame. In quel momento, dopo la prima fase di sollevazione e dopo aver passato mesi a autogestire l’assistenza sociale e sanitaria (abbiamo fornito circa 15.000 pacchi alimentari), come organizzazioni sociali abbiamo deciso di uscire a manifestare nuovamente. Il governo accusa la protesta di essere in combutta con la guerriglia e con i narcos: le vittime della polizia e dell’esercito, le torture, gli stupri, gli attacchi, gli abusi e i desaparecidos si contano a migliaia. Ci prepariamo quindi per difendere i cortei fisicamente, con gli scudi e con la solidarietà: è il periodo della primera linea delle manifestazioni, dei concerti e della vendita di tatuaggi [mostra un tatuaggio che rappresenta una manifestazione protettata da una prima fila di scudi] per finanziare il soccorso medico, che curava i feriti, e per proteggere i compagni dalle incursioni poliziesche. Si trattava di mobilitarsi per difendere la sollevazione popolare dalla violenza e di denunciare la repressione grazie alla voce pubblicadelle organizzazioni sociali, ma anche di continuare a essere presenti nelle comunità dei quartieri, spiegando le ragioni della lotta e contrastando il discorso mediatico imperante, che stigmatizzava i manifestanti come narcoterroristi.

In questo periodo, frazioni blande e frazioni più risolute della sinistra politica, riunite nell’alleanza del Pacto Histórico, cominciano ad appoggiare le istanze della sollevazione popolare. Francia Márquez svolge un ruolo molto importante da questo punto di vista, sostenendo in particolare le rivendicazioni delle donne nere del Cauca, vittime della violenza narco-patriarcale di militari e gruppi armati. I primi segni di cedimento delle classi dominanti si vedono subito: già nelle elezioni locali la destra e l’ultradestra subiscono gravi sconfitte; l’uribismo perde la città di Medellín, sua roccaforte storica. Avviene poi qualcosa di inedito, che non avevamo mai vissuto e che non avremmo mai creduto possibile. A pochi mesi dall’estallido social, con un discorso mediatico ancora più aggressivo nei confronti dei movimenti sociali e della sinistra, il Pacto Histórico esce vincitore dalle elezioni presidenziali con il programma del “gobierno de la vida”. Si tratta di un programma che prevede non soltanto la ridistribuzione della terra e dei profitti, ma anche la politica della paz total (pace totale) e misure forti per combattere l’estrattivismo, proteggere la natura dall’appropriazione capitalistica e favorire la transizione energetica. Nella Comuna 13, così come in quasi tutti i quartieri popolari e le zone povere della Colombia, appena visto il risultato delle elezioni la gente è uscita in strada a festeggiare e ballare per tutta la settimana.

Il primo anno e mezzo di “gobierno de la vida” è stato caratterizzato da un’ostinata resistenza al cambiamento da parte dei poteri che hanno sempre dominato la politica colombiana. La destra e l’ultradestra, i grandi gruppi proprietari, la burocrazia di stato e i media non hanno smesso di attaccare il governo, ostacolando con ogni mezzo possibile le riforme. Qual è il bilancio di questa prima fase del mandato? E che ruolo possono svolgere progetti come quello di Casa Kolacho in questo contesto?

A partire dall’investitura del governo la destra ha condotto una vera e propria guerra mediatica, che lo stesso Petro avrebbe dovuto prevedere e prevenire tramite misure drastiche per attaccare il monopolio del grande capitale sui mezzi di comunicazione. L’iniziativa del governo, per quanto timida, ha imposto un cambiamento di rotta rispetto alle politiche neoliberali e narco-paramilitari di Uribe, Santos e Duque. Dalla riforma dell’università e dell’educazione alla riforma fiscale, fino alla redistribuzione della terra in alcune zone rurali, passando le costruzione di grandi campi di pannelli solari nella Guajira [penisola desertica della costa atlantica, al confine con il Venezuela] per fornire energia elettrica alle comunità indigene Wayu [tra le più povere e abbandonate della Colombia, ndt], il governo non ha smesso di concentrarsi sui temi storicamente tralasciati dalla politica, che sono peraltro le cause strutturali del conflitto armato. La Colombia ha ormai un protagonismo internazionale senza pari sul tema del cambiamento climatico, della pace, e della lotta alle diseguaglianze. L’economia è in crescita e le negoziazioni con l’ELN e gli altri gruppi armati procedono grazie alla politica della “paz total”. Tutte queste iniziative hanno e avranno un impatto sulla vita delle persone, ma sono sistematicamente nascoste e distorte dall’offensiva dei media mainstream. Per questo, se oggi chiedi a un taxista o a un pensionato di Bogotá o di Barranquilla cosa pensa della situazione, ti dirà che è un disastro, che è tutto peggiorato rispetto a prima, che Petro è come Maduro. Questi sono gli effetti del “terrorismo mediatico” della destra.

Dal nostro punto di vista, dobbiamo costruire la controffensiva comunicativa attraverso una mobilitazione territoriale capillare. Non è troppo diverso da quello che, come organizzazioni sociali, abbiamo fatto durante la pandemia. Si tratta di andare casa per casa, vicino per vicino, abitante per abitante, per spiegare, diffondere e discutere le riforme e articolare democraticamente – con una democrazia autentica, dal basso, non come quella liberale che ci ha sempre venduto l’Occidente – il processo di cambiamento. Durante l’estallido abbiamo costruito degli scudi per difenderci dagli attacchi della polizia, dei militari e dei paramilitari. Ora le organizzazioni sociali devono essere lo scudo del proceso de cambio a fronte della spinte reazionarie della destra e del grande capitale. O meglio, devono costruire le basi perché le classi popolari guidino la trasformazione sociale. Non credo sia utile, in questa fase, entrare in competizione numerica con la destra rispetto a quanta gente si porta in piazza. Bisogna, piuttosto, costruire un consenso profondo e radicato.

Il nostro, sia chiaro, non è uno scudo ingenuo. Laddove necessario bisogna criticare il governo, puntare il dito sulle contraddizioni, sui compromessi al ribasso, sulle mancanze e sugli errori che sono stati commessi, come la nomina di certi ministri “di mediazione” e di alcuni membri di gabinetto piuttosto discutbili. Noi, peraltro, chiediamo maggiori investitmenti nelle politiche sociali, educative, artistiche e culturali, vero e proprio pilastro di una trasformazione sociale profonda e duratura, nonché maggiori risorse per sostenere le famiglie dei desaparecidos e le vittime del conflitto armato. Dobbiamo consolidare un blocco sociale popolare e una forza contro-egemonica, che possa resistere agli attacchi durissimi che stiamo ricevendo, e che sia pronta a mobilitarsi nelle strade di fronte a un eventuale tentativo golpista – uno scenario che non è assolutamente da escludere nei prossimi mesi. Verrà il momento di intensificare la mobilitazione di piazza, di lottare duramente. Per ora, per non trovarsi in difficoltà in futuro, bisogna insistere sull’educazione popolare e sull’articolazione territoriale del processo di cambiamento, perché sopratuttto nelle metropoli come Bogotá, Medellín, Barranquilla e Cali, i risultati del governo sono meno evidenti che nelle campagne.

Quali sono le sfide più urgenti che si profilano all’orizzonte? E che clima si respira in quei settori che, come il vostro, hanno appoggiato e in buona parte generato il processo di cambiamento? Sul piano continentale, la situazione sembra farsi sempre più complicata. In paesi come l’Argentina, il Perù e El Salvador, l’ultradestra ha conquistato o si è confermata al potere, mentre in Colombia, come dicevamo, l’opposizione al governo si fa di giorno in giorno più aggressiva e minacciosa.

I prossimi sei o sette mesi saranno molto duri: rappresenteranno probabilmente la fase più critica e il potenziale punto di svolta per il processo di trasformazione iniziato nel 2022. Sul piano istituzionale, molto dipenderà dal comportamento della nuova fiscal general [procuratore generale dello Stato, figura chiave nell’equilibrio dei poteri di molti paesi latino-americani, ndt], appena eletta con notevole ritardo, che speriamo non sia completamente prona alla destra come il precedente. Questo passaggio di consegne giuridico-istituzionale sarà fondamentale per scongiurare la possibilità di un “golpe blando”, operato tramite i meccanismi della giustizia, come è avvenuto ad esempio in Brasile. A differenza di altri paesi del continente, la destra non è in grado, almeno per ora, di esprimere una mobilitazione di piazza intensa e non ha ancora trovato un leader unificante. Vi è tuttavia una forte spinta da parte dell’ultradestra uribista nella direzione di un golpe. Quest’operazione potrebbe essere favorita paradossalmente dal rischio di un’inedita alleanza tra alcune frazioni di gruppi armati (più o meno legati a guerriglie e dissidenze) con gruppi narcos e paramilitari che si scontrano per il controllo della coca. Non sarebbe soltanto una vergogna etica e politica per queste frazioni della lotta armata, ma soprattutto l’esplodere della violenza armata potrebbe destabilizzare fortemente il paese e giustificare un’azione golpista di ritorno all’ordine.

Un secondo punto determinante sarà il successo delle misure economiche e sociali del governo. Come dicevo, nella percezione collettiva dell’azione di governo c’è una netta differenza tra città e campagna, e abbiamo bisogno che anche nei quartieri popolari delle grandi metropoli si senta il cambiamento. Anche questa partita si giocherà soprattutto nei prossimi mesi. L’entusiasmo non manca, anche se alcuni sono delusi per la scelta di alcune figure nel governo, considerate poco “garanti” del processo.

Resta che il nostro ruolo è quello di incitare le riforme e di trasmetterle democraticamente nei territori, traducendole nel linguaggio delle nostre comunità, e avanzando nel processo di educazione per formare una base sociale che sia pronta a mobilitarsi contro la reazione e i rigurgiti proprietari dei prossimi anni. Bisogna andare dai riservisti dell’esercito a spiegare che il sussidio che ricevono ora è frutto delle riforme del governo, in modo da sottrarli ai golpisti; bisogna andare nelle campagne a dire che le terre distribuite ai contadini sono state espropriate ai terratenenti narcos; diffondere l’idea che dobbiamo difendere con i nostri corpi la vita sociale e naturale in Colombia. Se riusciamo a superare i prossimi mesi, a costruire egemonia tramite l’educazione popolare, ad approvare misure economiche e sociali d’impatto per le classi subalterne, a trasmettere e articolare nei quartieri le riforme del governo e, se la nuova fiscal general non sarà troppo ostile al cambiamento, si potrà superare la fase più critica e approfondire ulteriormente la trasformazione della società colombiana.

Immagine di Matteo Polleri.

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