di Maria Pellegrini

 

Mentre giorni fa seguivo davanti allo schermo televisivo l’oceanica manifestazione, grido di protesta civile di Parigi, città ferita e sotto choc come tutti noi, per la follia jihadista, mi colpì la frase di un giornalista: «I terroristi sono addestrati nello Yemen per portare la paura tra gli infedeli». Quelle parole continuavano a martellarmi nella testa finché non misi a fuoco la posizione geografica dello Yemen, regione a sud dell’Arabia Saudita bagnata dal mar Rosso e dall’oceano Indiano dove un tempo regnava la leggendaria regina di Saba, protagonista di un racconto biblico: andò a Gerusalemme con grandi ricchezze, con cammelli carichi di aromi, di molto oro e di pietre preziose per mettere alla prova la saggezza di Salomone, che non la deluse, anzi ne rimase affascinata. «Non arrivarono mai tanti aromi quanti ne portò la regina di Saba a Salomone» è scritto nella Bibbia. Saba evoca l’immagine di un territorio fiabesco, ricco di oro, ed odoroso di profumi d’Oriente, incenso, mirra, il cinnamono, cassia. Il regno di Saba era localizzato nella regione che oggi si chiama Asir, nel Sud Ovest dello Yemen e la sua capitale Marib, era vicina all’odierna capitale Sana’a dove  Pasolini girò un indimenticabile documentario, Le mura di Sana’a. Difficile conciliare l’atmosfera fiabesca della magica Sana’a con quanto oggi leggo su Repubblica. it  «Yemen, paese nel caos: al-Qaeda avanza nel sud-ovest, nuova minaccia jihadista all’orizzonte».

            Ma torniamo ad anni lontani quando la penisola araba costituiva uno dei luoghi di passaggio obbligati per le merci che dall'Asia centrale dovevano raggiungere i porti sul Mediterraneo; il percorso, dopo il tratto interno, si snodava lungo la costa del Mar Rosso, allora indicato come Golfo Arabico, l’unico transitabile da carovane di cammelli o dromedari, per la presenza di numerose oasi intorno alle quali si svilupparono importanti centri abitati. Nella Geografia del greco Tolomeo (100-175 d.C circa.) l’Arabia per la prima volta viene esplicitamente menzionata tra le terre facenti parte del mondo conosciuto, e con Eudaimon Arabia (per i Romani sarà Arabia Felix) si designavano le sole regioni più meridionali della penisola arabica, gli attuali stati dello Yemen e dell’Oman. La ricchezza di tali regioni, da secoli già note per l’abbondanza di preziose materie prime, fra tutte l’incenso, e bagnate dalle piogge monsoniche, rende appropriato quell’attributo  felix che in latino indica prosperità, fertilità.

            Così Plinio il vecchio (scrittore latino vissuto nel I secolo d.C) descrive l’Arabia felix, nella sua Naturalis historia, XII, 82: «Felice è chiamata l’Arabia, che grazie al lusso sfarzoso rese l’uomo felice anche nella morte, poiché si bruciano per i defunti spezie e incensi creati per gli Dei. L’Arabia ogni anno produce tanti incensi […] che in tutto il mondo sono bruciati in gran quantità ogni anno per funerali in onore dei morti, e agli Dei offerti un grano alla volta. In verità la felicità dell’Arabia viene anche oggi dal mare: da quello infatti ottiene speciali perle e nella loro produzione supera tutti i popoli. Secondo una stima minimale l’India, i Seri e l’Arabia sottraggono al nostro impero cento milioni di sesterzi ogni anno: tanto a noi costano le per le richieste dalle donne raffinate e per  i profumi, infatti una minima parte degli incensi e degli aromi è in onore degli Dei e dei morti». La descrizione di Plinio non si basa su un’esperienza diretta. Non conoscendo l’immensa estensione dei suoi deserti, privi di acqua e di vita, è suggestionato soprattutto dalla fama dell’Arabia Felix, la parte più rigogliosa. Anche parlando dei Sabei, la popolazione allora più ricca ed evoluta del paese (quella dello Yemen attuale) riserva loro elogi eccessivi: «Nel complesso è gente molto ricca, in quanto in loro confronto le più grandi sostanze dei Romani e dei Parti sono ben più ristrette, in quanto gli Arabi vendono ciò che ricavano dal mare e dai boschi, senza comprare nulla in cambio».

            I Romani cominciano ad avere rapporti diretti con gli Arabi sotto Pompeo, conquistatore della Siria nel 63 a. C, confinante col primo stato arabo detto Arabia Nabatea, che raccoglieva all’incirca la moderna Giordania o poco più. A Pompeo viene attribuita da Plutarco (Vite parallele, Pompeo, 38) perfino l’idea, non attuata, di raggiungere attraverso l’Arabia il Mar Rosso («Fu preso anche da una smania ardente di conquistare la Siria e giungere al mar Rosso, attraversando l’Arabia»). Ma fu soprattutto sotto Augusto che avvenne una spedizione nel 25-24 a.C., guidata dal prefetto d’Egitto C. Elio Gallo che avviò una smisurata campagna, sia per terra che per mare, per impadronirsi della lunga costiera della penisola arabica bagnata dal mar Rosso e metterla a disposizione del commercio romano, senza nemmeno immaginare né la lunghezza di quella costa né l’aridità del territorio interno. Allestì un grande esercito di terra e una immensa flotta: secondo Strabone (storico e geografo greco del I secolo d.C. che soggiornò a Roma, viaggiò molto e seguì Elio Gallo nella sua spedizione) era di «80 biremi, triremi e 130 navi lunghe da trasporto per imbarcare 10.000 uomini» (Geografia, 16,4). Sbarcò a Leukè Kome, sul Mar Rosso. dove si aggiunsero contingenti alleati. Ma fu un disastro. Avanzarono tra mille difficoltà per mare dove le coste erano senza possibilità di approdo, e per terre desertiche sul continente. Ma Elio Gallo volle continuare la marcia incontrando appena qualche rara resistenza. Giunse finalmente fin sotto Mariba (oggi Marib nello Yemen), allora importante città dei Sabei, vi pose l’assedio ma dopo sei giorni nell’assoluta mancanza d’acqua, preferì continuare la marcia, per raggiungere il paese degli aromi, dietro indicazioni dei prigionieri. Aveva perduto ben sei mesi nell’estenuante campagna quando si decise a tornare indietro. Raggiunse Alessandria con soli pochi resti delle numerose truppe allestite, perdute per malattie, fatiche, fame. Elio Gallo accusò di tradimento la guida araba Silleo che fu ucciso col consenso dello stesso Augusto perché s’era impegnato a far da guida nella spedizione e invece aveva dirottato i Romani per deserti e scogliere, d’accordo con gli Arabi destinati all’invasione.

            Durante la sua spedizione in Arabia C. Elio Gallo nella relazione ufficiale annotò osservazioni su uomini e luoghi che servirono da testo  sicuro per gli studiosi latini. Egli descriveva l’itinerario percorso, le città distrutte, tra cui Mariba,capitale dei Sabei cinta da muraglia lunga sei miglia, infine Caripeta, ultima sede raggiunta. Da qui era cominciata la marcia di ritorno. Aggiungeva anche notizie sulle varie popolazioni, i loro prodotti, i loro costumi e abitudini alimentari.

            Augusto nelle sue Res Gestae, documento trionfalistico e tendenzioso delle sue imprese, manifesto politico e autoglorificazione fino alle soglia dell’apoteosi, così documenta l’impresa «Per mio ordine e sotto i miei auspici, due eserciti furono guidati contemporaneamente in Etiopia e nell’Arabia detta Felice, e vaste schiere di entrambe le popolazioni nemiche furono uccise in campo e molte città conquistate. In Etiopia si giunse fino alla città di Nabata, in Arabia l’esercito marciò in territorio dei Sabei fino alla città di Mariba» (26, 5). Ma come scrisse lo stesso Elio Gallo la città non fu conquistata ed Augusto nella sua sinteticità narrativa omette che fu assediata senza successo, come documentano Strabone (XI, 4) e Plinio il vecchio (VI, 28). Cassio Dione, vissuto fra il II e III secolo d. C., autore di una voluminosa Storia di Roma, tace, come Augusto, questo particolare e così narra questa impresa di conquista: «Elio Gallo organizzò (con il consenso di Augusto) una spedizione militare nella cosiddetta Arabia Felix su cui regnavano i Sabei. Inizialmente non incontrò nessun ostacolo e la sua marcia non ebbe difficoltà, ma poi il deserto, il sole, e l’acqua, che tra l’altro ha delle caratteristiche particolari, affaticarono a tal punto gli uomini che la maggior parte dell’esercito fu sopraffatto. Furono colpiti dalla disidratazione e da malori sconosciuti che provocavano la morte istantanea di molti. Proprio perché afflitti da questi mali i barbari li assalirono […] e avvalendosi del malessere come di un alleato, riconquistarono i loro possedimenti e cacciarono fuori dalla regione coloro che erano sopravvissuti. Questi furono i primi Romani, e credo anche gli unici, ad aver percorso per un tratto così lungo questa parte dell’Arabia per scopi bellici fino a una terra chiamata Athlula» (LIII, 29, 3), l’odierna Baraqish. In realtà i Romani spinsero fino a Mariba desistendo dall’assedio, come documentano gli altri autori sopra citati.

         Più tardi anche Ammiano Marcellino, storico latino nato in Siria nel 330 d. C  tornerà a parlare nella sua opera (Storie 23, 6, 45) di questi luoghi e della sua gente: «Gli Arabi Felici, certo furono chiamati così perché sono ricchi  di frutti dati dalla terra, di greggi, di datteri, e di soavi profumi. Gran parte di essi toccano il Mar Rosso sulla destra, sulla sinistra il mare Persico (oggi Oceano Indiano), avvezzi a possedere i beni di entrambi i mari. Qui ci sono ripari e porti tranquilli ed empori affollati, residenze famose e belle di re, sorgenti salutari di acque calde naturali e un gran numero di ruscelli e fiumi. Il clima è salubre, tanto che a ben riflettere sembra giustamente che ad essi non manchi nulla per l’estrema felicità. Molte le città interne e sulla costa, molti i campi in pianura, molte le vallate, molte le città interne e costiere».

            Questa era l’Arabia Felice che l’imperialismo romano tentò di conquistare. Ora qui si addestrano uomini per portare terrore e morte nell’Occidente.

            Storici, economisti, analisti politici, governanti delle maggiori potenze dovranno interrogarsi sul perché di questo terrorismo dal volto sanguinario. 

Condividi