L'editoriale di Gian Filippo Della Croce - Lettera da Terni
di Gian Filippo Della Croce -
C’era una volta una città la cui vita era scandita dalle sirene delle fabbriche e ogni sirena aveva una sua voce personale, così che era facile riconoscerla:
“ è la sirena delle acciaierie”, “è la sirena della Fabbrica d’Armi”, “ è la sirena di Centurini”, “ è quella della Polymer”, “è quella della Bosco”…
Le sirene chiamavano i lavoratori dei “turni”, il Primo, il Secondo, il Terzo. Turni di otto ore che in alcune fabbriche costituivano il “ciclo continuo”, mentre in altre i turni erano soltanto due o c’era quello “ a giornata”. Fabbriche minori non avevano sirene ma anch’esse avevano i turni, cosicché la città era pervasa ogni otto ore dal via vai degli operai, degli impiegati, da sciami di persone che si recavano al lavoro o tornavano alle loro case, ogni giorno per tutti i giorni dell’anno.
Ho avuto la ventura di vivere l’ultimo periodo dell’era della bicicletta, perché era soprattutto in bicicletta che si muovevano quegli sciami e i parcheggi delle fabbriche non erano altro che un mare di biciclette. Le sirene chiamavano giorno e notte, fino a che finì anche l’era delle sirene, come quella delle biciclette e nel frattempo le fabbriche crescevano, si trasformavano, diventavano più moderne e riuscivano a soddisfare quasi completamente le necessità occupazionali della popolazione.
La chiamavano anche la “città fabbrica”, o anche retoricamente “la dinamica”, per sottolinearne l’eterno movimento che come nelle città di Italo Calvino era come un gigantesco telaio che tesseva fitte trame di fili multicolori che quegli sciami in eterno movimento portavano con loro, legati alle loro biciclette, fili che si intrecciavano, si avvolgevano, diventando fitte matasse inestricabili…..è così che Calvino ci rende la suggestiva immagine delle relazioni che una città tesse quotidianamente fra i suoi abitanti “ragnatele di rapporti intricati che cercano una forma”.
Tutti credevano che quel modo di vivere non sarebbe finito mai, si sarebbe evoluto, cambiato, trasformato ma non sarebbe mai finito, fu così che il piano regolatore generale della città redatto da illustri architetti aveva previsto che nel nuovo millennio quella città avrebbe raggiunto i duecentomila abitanti, continuando quel ritmo di crescita che ne aveva caratterizzato lo sviluppo.
Anche la politica nella città era fatta a sua immagine e somiglianza, interloquendo con le fabbriche alle quali era essenzialmente legata, le fabbriche demandavano ai politici le questioni del loro sviluppo, in cambio accoglievano le loro richieste e le loro indicazioni, così anche fra la politica e le fabbriche si tessevano fitte trame di fili multicolori e la più grande di esse sosteneva con risorse equamente distribuite anche i festival di partito. Ma come nella città di Calvino, un giorno si spezzarono i fili e quella città mito e leggenda, opportunità e concretezza, rimase ingabbiata nelle sue trame di fili che nessuno riusciva più a collegare. Le città di Calvino a quel punto venivano abbandonate dagli abitanti che smontavano le case e se ne andavano altrove a fondare un’altra città dove ricominciare a tessere nuove trame.
Nella città di cui parliamo, questo è già stato tentato, magari senza esodi e ricostruzioni altrove, ma cercando di ricostruire sul posto, di riannodare quei lunghi fili spezzati, una variante rispetto al destino delle città calviniane che però non ha dato i frutti sperati, perché il luogo è qualcosa che a che fare con la memoria, con le emozioni e con il desiderio. I luoghi stanno alla storia vissuta come lo spazio sta al tempo che trascorre, e questa città non può dimenticarlo nella sua ricerca spasmodica di nuovo orizzonte.
Anche la politica deve ripartire da questa considerazione, che è semplice da pensare ma difficile da attuare e questi sono tempi difficili, dove ci si accorge parlando del tempo trascorso che esso può essere trascorso invano e ora che i fili fra le fabbriche e la città sono inesorabilmente spezzati la politica o è capace di riannodarli o dovrà constatare il suo fallimento.
Oggi non si sentono più le sirene, si sentono il fragore delle manifestazioni “sono quelli della Thyssen”, “sono quelli della chimica”, “sono quelli…..”, no sono soltanto quelli, gli ultimi, gli altri non ci sono più, sono spariti con le sirene e il loro lascito professionale non è stato raccolto da nessuno, anzi a un certo punto è sembrato che dilagasse come una moda oscena, la voglia di tagliare quei fili che oggi non sorreggono più la città nel suo spazio dove è in caduta libera verso il fondo che ancora non si intravede.

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