Convinti a non disperdere l’esperienza e la ricchezza storica della sinistra sindacale organizzata, della quale siamo parte. Pensiamo che il pluralismo programmatico, delle idee e di pensiero sia il collante che rafforza, nel libero confronto, la natura confederale plurale democratica della nostra organizzazione. Facciamo parte della maggioranza, sosteniamo le scelte programmatiche assunte nel congresso, e siamo per tradurre e conquistare nella coerente pratica sindacale quanto abbiamo elaborato e indicato con il Piano del Lavoro e la Carta dei diritti.
Pensiamo alla CGIL come bene comune, da preservare, difendere e da rinnovare costantemente, senza recidere le sue radici storiche classiste e di soggetto politico autonomo di rappresentanza sociale e generale del mondo del lavoro.
Il tema del salario e della continua perdita del suo potere di acquisto è centrale per le persone che vivono di lavoro siamo cresciuti pensando al lavoro come strumento di emancipazione mentre invece oggi si può essere poveri pur lavorando. Ma cosa si intende precisamente per “lavoratori poveri” (working poor)? L’enciclopedia Treccani così li definisce:
“chi appartiene alla categoria dei lavoratori poveri, cioè coloro che, pur avendo un’occupazione si trovano a rischio di povertà e di esclusione sociale a causa del livello troppo basso del loro reddito, dell’incertezza sul lavoro, della scarsa crescita reale del livello retributivo, dell’incapacità di risparmio”.
Secondo l’ultimo rapporto Censis, sono 2,9 milioni di lavoratori poveri:
35% nella classe d’età 15-29;
47,4% in quella 30-49 anni.
Il 79% appartiene alla classe operaia;
il 53,3% sono uomini.                  
Tra gli operai ci sono 8,6 milioni persone che lavorano per un totale di poco più di 200 giornate l’anno con una retribuzione media annua di 14.762 euro Ci sono poi 629 mila apprendisti che lavorano 203 giorni l’anno per 11.709 euro. Nella sfera del lavoro povero in Italia si possono quindi inquadrare praticamente quasi tutti i lavoratori precari che devono essere sommati al lavoro irregolare, circa 3 milioni di persone nel 2020, una parte dei lavoratori dei settori agricoli e della vasta area del lavoro domestico, per un totale di circa 921mila persone.
Questa situazione pone il nostro Paese ai primi posti in Europa per i livelli di working poor.
Gli occupati a rischio povertà nel decennio 2010-2019 nell’intera Unione europea si sono attestati al 9,2%. Sotto la media paesi come la Germania, all'8,0%, e la Francia, al 7,4%. In Italia siamo all’11,8%.
Solo in Umbria  35mila lavoratori a rischio poverta per via del precariato, lavori stagionali e altre forme flessibile.
Ma anche i contratti a 1200 euro al mese a causa dell'aumento del carovita e caro-energia rischia di perdere solo nel 2022 un 1/5 di potere di acquisto. Una situazione drammatica.
“In Italia il lavoro non è più un’assicurazione sicura contro il rischio povertà. Si può essere poveri anche lavorando” -  
“Ma per contrastare il fenomeno e tentare di risolvere il problema non basta affidarsi a una legge che introduca un salario minimo uguale per tutti”. 
Le cause di questo fenomeno sono state molteplici: una lunga stagnazione, il blocco dei contratti: SONO 992 I CCNL VIGENTI, SCADUTO IL 62,7%.
I contratti collettivi nazionali di lavoro depositati nell’Archivio nazionale dei contratti pubblici e privati del CNEL, aggiornato al 31 dicembre 2021, sono 992. Di questi, 622 risultano scaduti (62,7%).
C'è poi la ridotta dimensione d’impresa, 
•               i contratti pirata,
• la concorrenza al ribasso dei costi,
• il fenomeno degli appalti e subappalti
• il ricorso al part-time involontario, (2,7 milioni in italia)
• i lavori discontinui.
• Il dilagare del precariato (3 milioni di precari,)
 
Una ulteriore preoccupazione di politica sociale è data dal fatto che alle  basse retribuzioni si associano, spesso,
• scarse garanzie contributive,
• irregolarità delle carriere,
• scarsa attenzione alla sicurezza sul lavoro ecc.
• una riduzione complessiva dei diritti
Queste condizioni determinano un rischio di povertà individuale e  familiare.
Ma quali sono le cause di  situazione paradossale?
• l’evoluzione  e destrutturazione del mercato del lavoro,  
• i cambiamenti tecnologici della struttura produttiva che hanno favorito la domanda di lavoratori qualificati rispetto a quelli non qualificati   
• la delocalizzazione del lavoro nei paesi in via di sviluppo che ha comportato una riduzione dei salari dei lavoratori meno qualificati in Europa;
• i fenomeni migratori che possono aver ridotto il salario dei lavoratori nativi poco qualificati.
Ma anche i cambiamenti istituzionali rientrano certamente nelle cause del cambiamento in atto:
• le riforme di liberalizzazione del mercato del lavoro che hanno determinato il peggioramento della qualità delle posizioni lavorative ma anche
• l’indebolimento del potere contrattuale dei sindacati e il minor ricorso alla contrattazione centralizzata che possono aver avuto ripercussioni negative sui salari.
La povertà lavorativa, infatti, è comunemente collegata a salari insufficienti mentre in realtà è il risultato di un processo che va ben oltre il salario e che riguarda i tempi di lavoro, quante ore si lavora abitualmente a settimana e quante settimane si è occupati in un anno.
Tra le regioni con più alta incidenza di “nuovi poveri” si distingue la Valle d’Aosta (61,1%,), la Campania (57,0%), il Lazio (52,9%), la Sardegna (51,5%) e il Trentino Alto Adige (50,8%). Regioni del ricco Nord assieme, dunque, ad alcune aree del Centro e del Mezzogiorno, in linea con quanto evidenziato dall’Istat nell’ultima rilevazione sulla povertà assoluta.
Sul fronte delle povertà di lungo corso, le regioni con la più alta percentuale di persone seguite da 5 anni e più (che  possiamo assimilare alle condizioni di cronicità) risultano essere: Toscana (43%), Umbria (36,4%)  Friuli Venezia Giulia (33,1%) e Abruzzo (32,8%).
In Umbria il livello dei salari, da sempre inferiore alla media delle regioni  nazionale e di più a quella delle regioni del centro nord,
oggi pesa di più  essendo venuto meno il sistema di welfare  indicato   (anche con qualche ragione) come modello tra i migliori del paese, e che aveva rappresentato  uno dei cardini   della coesione sociale che ha caratterizzato la fase più luminosa del regionalismo umbro.
In particolare in Umbria, i nuovi poveri registrati nell’anno della pandemia sono 35,4%; quelli in povertà da 1-2 anni sono il 15, 8% e quelli da 3-4 anni sono il 12,4%. Il totale dei poveri nella nostra regione, secondo l’ultimo rapporto della Caritas, si attesta a 5.244 persone.
Altro tema interessante è costituito dall’aspetto generazionale
In tutta Italia i giovani lavoratori sotto i 35 anni guadagnano meno dei loro predecessori, l’Umbria si trova sotto la media dei dati nazionali.
Con redditi più bassi, stipendi precari e meno possibilità di assunzione, i giovani umbri si collocano in una posizione di svantaggio rispetto ai loro coetanei italiani, questo è quanto emerge da uno studio   dell’Agenzia Umbria ricerche

Occupazione- La quota dei lavoratori under 35 in Italia nel 2020 si attesta al 24,2%, mentre in Umbria per lo stesso anno il dato registrato è del 21,5%, secondo l’osservatorio Inps.
Ad incidere sulla presenza dei giovani nel mercato del lavoro italiano sono sicuramente le condizioni di precariato generalizzate, che spingono i lavoratori di questa fascia d’età ad
emigrare, soprattutto considerato che mentre in Italia gli stipendi scendono, nel resto d’Europa salgono.
La pandemia non ha di certo giovato al mercato del lavoro: penalizzati soprattutto i giovani lavoratori, il cui numero complessivo in Umbria nel 2020 è sceso di -3,6%, 0,2 punti in meno rispetto alla media nazionale.
Nel primo anno di emergenza sanitaria è stato registrato un sensibile aumento dei nuovi assunti per i posti di lavoro occasionali, in Umbria pari a quasi 2 mila unità, soprattutto per il bonus baby sitter, il 71% dei lavoratori sotto i 35 anni nella Regione lavorano infatti come dipendenti privati.
 
Rispetto alla media dei lavoratori umbri, i giovani guadagnano circa un terzo in meno, indipendentemente dalla posizione che ricoprono. Il dato, seppur in parte fisiologico, dal momento che la retribuzione va aumentando insieme agli anni di lavoro, comporta degli effetti demografici sulla Regione: una retribuzione bassa scoraggia l’inclinazione alla genitorialità,
ne consegue una popolazione sempre più anziana.
Il 2020 è stato un anno penalizzante anche in tema di retribuzione, mentre fino al 2019 il dato è continuato a salire, nel primo anno di pandemia la media salariale dei giovani umbri è scesa del 7,3%, lo 0,4% in meno rispetto al resto dei lavoratori.  
Il reddito lordo annuo del lavoratore umbro medio under 35 è di 13.341 euro, inferiore del 5,8% rispetto al dato nazionale e del 13,9% rispetto al centro-nord, creando quindi un divario sensibile.
Lo svantaggio diventa sostanziale in particolare nella categoria dei dipendenti privati, per la quale il divario dell’Umbria scende dal -5,8% nazionale al -14,4% in rapporto alle regioni centro-settentrionali.  Lo svantaggio retributivo umbro rispetto alle aree di riferimento rimane una caratteristica che prescinde dall’età e che si amplifica soprattutto in relazione alle classi centrali e in rapporto ai dati delle regioni del centro-nord.
Verso l’estero Il complesso di questi dati ci dà una lente di lettura rispetto al progressivo impoverimento demografico dell’Umbria, negli ultimi dieci anni infatti oltre 5 mila umbri, tra i 18 e i 39 anni, si sono trasferiti in altri Paesi o in altre regioni italiane con prospettive migliori.
Da ultimo un breve cenno ad alcuni dati del Rapporto dell’Osservatorio diocesano sulle povertà e l’inclusione sociale della Caritas di Perugia-Città della Pieve
“Nel 2020 c’è un forte aumento del numero dei richiedenti aiuto – sottolinea il prof. Grasselli nella nota di sintesi – che si sono rivolti al Centro di ascolto diocesano (principale fonte del Rapporto, ndr). Si passa da 1.039 nel 2019 a 1.306 (754 donne, 552 uomini), con una variazione del 25,7% in più. Contrariamente agli anni passati, l’aumento ha riguardato essenzialmente gli italiani (da 250 nel 2019 a 388 nel 2020, con un +55,2%), e in modo più contenuto gli stranieri (da 745 a 869: +16,6%). Gli italiani passano così da un quarto a circa il 30% del totale
Si innalzano le fasce di reddito colpite dalla povertà. 
Un effetto vistoso della pandemia sulla composizione dei poveri si osserva sul fronte dei redditi degli utenti: dalla distribuzione del reddito familiare (relativo al 2019) degli utenti della Caritas del 2020 risulta l’aumento del peso delle fasce oltre i 600 euro, aumento che dipende dall’accesso al Centro di ascolto dei “nuovi” utenti. 
Per gli italiani, si passa da un reddito medio di 485 euro dei “vecchi” utenti agli 826 euro dei nuovi: si intuisce l’ingresso in Caritas di figure nuove (che possono essere lavoratori autonomi, piccoli imprenditori, artigiani, professionisti…), di famiglie con redditi di poco superiori alla soglia di povertà, e trascinati al di sotto di questa dalle conseguenze restrittive dell’emergenza sanitaria.
Sempre più insostenibile l’onere degli affitti. 
836 (64% del totale): è il numero dei poveri acceduti al Centro che dichiarano di vivere in una casa in affitto da privato. L’incidenza della povertà assoluta dipende anche dal titolo di godimento dell’abitazione in cui si vive, e la situazione è particolarmente critica per chi vive in affitto.
Pensavamo che la profonda crisi sanitaria, sociale e economica, strutturale e globale avesse almeno fatto vacillare molti dogmi delle ideologie liberiste fondate sulla centralità del mercato e del profitto, sullo sfruttamento del pianeta e delle persone, sulle diseguaglianze e sulle ingiustizie sociali.
Pensavamo che la pandemia, avesse reso evidente a tutti l’importanza e la centralità della sanità pubblica
pensavamo che un sistema dove tutto si è trasformato in mercato e in profitto; la vita, la salute delle persone, il bene pubblico, la sanità, l’istruzione, l’acqua, l’energia,  in una siffatta situazione
potesse essere messo in qualche modo in discussione.
E invece su questa situazione si è abbattuta la tragedia della guerra in forma diretta per le popolazioni martoriate dell’Ucraina e indirettamente sulle classi subalterne di tutto il pianeta.
Quella scatenata da Putin è un’aggressione che noi condanniamo nettamente e senza alcuna esitazione  non è una guerra del bene contro il male come ce la vogliono dipingere ma è un  conflitto, di natura economica e per il controllo di fonti energetiche, tutto interno alla crisi e alle contraddizioni del sistema capitalistico globale giocata sulla pelle della popolazione Ucraina ma che avrà l’effetto di ridefinire i rapporti tra le classi (a tutto svantaggio di quelle subalterne) come minimo in tutta Europa.
Ed è per questo che crediamo che la guerra debba finire quanto prima perché più si prolunga e peggiori saranno le conseguenze per la classe lavoratrice. E non c’entra ne la difesa della democrazia ne dei valori della cultura occidentale.
Il protrarsi del conflitto è foriero di rischi molto seri sia per il numero e la dimensione degli attori coinvolti che per il fatto che si tratta di potenze dotate di armamenti nucleari ma anche per prezzo che sarà fatto pagare ai lavoratori sia sul piano del potere di acquisto dei salari che in termini di contrazione dei diritti e degli spazi di democrazia nel paese. E ne abbiamo già esempi evidenti;
basti pensare al modo con cui vengono trattati dal sistema dell’informazione tutti coloro che osano in qualche modo fare qualche ragionamento in più sulla genesi del conflitto (che lo ripeto per quanto ci riguarda in nessun caso solleva l’aggressore dalle sue responsabilità).
O coloro che si permettono di considerare vergognosa la scelta di aumentare le spese militari (fosse anche il Papa a dirlo)
In una situazione siffatta e con un quadro politico della sinistra desertificato, l’iniziativa della nostra Organizzazione è rimasta forse l’unico argine a una deriva che sembra inarrestabile.
Il piano per il lavoro, la lotta contro il Jobs Act ed a sostegno della Carta dei diritti universali del lavoro  e l’impegno culminato con lo sciopero del 16 dicembre sono stati momenti importanti ma non sufficienti.
È necessario intensificare il livello della mobilitazione promuovere e sostenere i conflitti che emergono dal basso.  
Dobbiamo chiedere con forza al Governo sia una legge su rappresentanza e rappresentatività – che rafforza e tutela il ruolo delle Organizzazioni sindacali - che il ripristino   dell’articolo 18, che permetta ai lavoratori e alle lavoratrici e alle loro RSU  all’interno dei posti di lavoro di svolgere il proprio ruolo senza dover sottostare ai ricatti. Ma dobbiamo anche in Umbria dare corso alla mobilitazione per quella vertenza per lo sviluppo della regione che ormai da troppo tempo preannunciamo.
La Cgil della Carta dei diritti, del sindacato di strada e della contrattazione inclusiva vive solo se è possibile poter fare i delegati con un minimo di tutela a fronte delle rappresaglie padronali in un quadro di disoccupazione e sottooccupazione. Il percorso non è agevole, lo sappiamo, e la strada è in salita e piena di ostacoli ma non abbiamo alternative!
 

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