Abbiamo ripetuto spesso in questi mesi come ci sia un filo rosso tra i processi di dismissione dell'università pubblica e l'attacco alle garanzie e ai diritti sindacali. Questo legame è emerso in queste settimane in forma ancora più nitida, sia dal punto di vista dell'azione del governo, sia da quello, forse più importante, dei percorsi di resistenza nel campo della formazione e del lavoro.

Il progetto del governo è stato ben chiarito dal leit motiv ripetuto continuamente dagli esponenti della maggioranza, “farla finita con gli anni ‘70”, ovvero smantellare un modello sociale che poneva al centro delle scelte produttive e industriali del nostro paese, la rivendicazione dei diritti dei lavoratori e la contrattazione salariale, conquistata, in quegli anni, attraverso le lotte dei lavoratori stessi. La retorica della “competitività in tempo di crisi” diventa invece la giustificazione al baratto dei diritti con il mantenimento di un posto di lavoro in condizioni peggiori.
Pensare di poter disporre dei diritti dei lavoratori, costringendoli ad un ricatto sul loro futuro e delegittimando le loro proteste, è uno dei più gravi attacchi alla democrazia e ai diritti sociali, che un paese non può permettersi di sopportare in silenzio.

Allo stesso modo utilizzare la retorica del merito e dell’efficienza per smantellare il diritto allo studio e l’università pubblica, provando a delegittimare e reprimere le proteste del movimento studentesco, non è che l’altra faccia della medaglia di un Governo che si dichiara apertamente dalla parte di Marchionne, della Fiat e di Confindustria.
Non è un caso, pertanto, che su questi due terreni si stia giocando una partita dal forte valore simbolico, oltre che politico.

Se l’attacco è generalizzato, generale deve essere la risposta non solo dei lavoratori e dei soggetti politici, ma di tutte le componenti coscienti della società, capaci di contrapporre un ragionamento critico alla semplificazione imposta dalla classe dirigente attuale.

Il referendum di Mirafiori ci consegna un risultato importante e per nulla scontato. Ha vinto il si ma con un margine alquanto esiguo e l'ago della bilancia sono stati gli impiegati, cioè i lavoratori meno toccati dalle clausole peggiorative dell'accordo.

Dopo l'autunno che abbiamo vissuto, l'esito di questa votazione significa, per noi, che in Italia è possibile creare un’opposizione dal basso a questa classe dirigente e a questo governo, che non si pieghi ai ricatti e che costringa la politica a confrontarsi con le istanze sociali reali di questo paese.

Contro questo attacco senza eguali ai diritti fondamentali del lavoro e dell'istruzione, la Fiom ha convocato per il 28 gennaio uno sciopero generale di categoria con manifestazioni regionali. Alla giornata di lotta hanno successivamente aderito anche i sindacati di base con la convocazione dello sciopero generale da parte dei Cobas. Uno sciopero generale che, è bene ricordarlo, gli studenti e le lotte sociali chiedono oramai da mesi e che la Cgil ancora non reputa opportuno convocare in quanto, a detta del Segretario Generale Camusso, “i tempi non sono ancora maturi”.

Come Sapienza in mobilitazione il 28 gennaio scenderemo in piazza a Cassino per manifestare al fianco di tutti i lavoratori e di tutte le lavoratrici in sciopero e per ribadire il legame che unisce le nostre lotte: lotte che non vogliono difendere l'esistente, ma costruire collettivamente un futuro migliore.

Un legame, quello di cui parliamo, che si è costruito innanzitutto sul terreno del rifiuto del ricatto e nell'opposizione a processi di riforma autoritari e che si esprime nell'affermazione di una dignità e di una forza immediatamente capaci di evocare un'alternativa possibile.

Non una battaglia di testimonianza, dunque, ma una mobilitazione generalizzata che abbia l’ambizione di superare l’esistente per e costruire collettivamente un futuro migliore.

Per anni ci hanno raccontato che una generazione, per colpa di un'altra, era stata esclusa dal patto sociale.Oggi, piuttosto che garantire nuovi diritti ai giovani precari, l'Italia ha deciso di togliere i pochi diritti rimasti alle generazioni precedenti, in un periodo in cui le statistiche parlano chiaro: un giovane su cinque tra i 15 e i 29 anni non studia e non lavora.

Per tutti questi motivi non ci appelliamo ad una classe politica incapace di governare, ma ci rivolgiamo a chi si oppone come noi a queste politiche economiche insostenibili, che non tengono conto della necessità di ripensare un nuovo modello di sviluppo.

Solo investendo in innovazione, ricerca e nuovi diritti si può uscire dalla crisi: attaccando i profitti e cambiando questo modello di sviluppo che distrugge l'ambiente, privatizza i beni comuni, precarizza le nostre vite e le nostre forme di socialità.

Solo se saremo in grado di mettere insieme esperienze di lotta differenti tra loro, capaci di parlare lo stesso linguaggio ed alludere ad alternative praticabili collettivamente, risulteremo all'altezza delle sfide che ci si pongono davanti. Sfide che abbiamo deciso di raccogliere, sicuri del fatto che nessuno di noi ha intenzione di dare un prezzo ai diritti e alla dignità di student*, precar* e lavorator*.

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