di Alessandro Portelli

Per cent’anni, Terni e «la Terni» sono state un’unica cosa. La città sen­tiva che la fab­brica è stata costruita e fatta fun­zio­nare con il lavoro di gene­ra­zioni di ope­rai, fonte di sus­si­stenza per migliaia di fami­glie, era cosa sua. L’azienda sen­tiva a sua volta che la città le appar­te­neva – la domi­nava e, sia pure pater­na­li­sti­ca­mente, se ne sen­tiva respon­sa­bile. I diri­genti vive­vano in città, gli ope­rai li salu­ta­vano con defe­renza in piazza e li anda­vano minac­cio­sa­mente a cer­care a casa per punirli dei licenziamenti.

Il rap­porto ha resi­stito, forse più sul piano della cul­tura e dei sen­ti­menti che su quello eco­no­mico, anche men­tre il modello azien­dale poli­set­to­riale si andava sfal­dando, con lo scor­poro dell’elettricità, e della chi­mica e la fram­men­ta­zione di parti dell’acciaieria. Quando nel 1994 l’azienda passa da una (sca­dente) gestione pub­blica alla mul­ti­na­zio­nale tede­sca Thys­sen Krupp, le isti­tu­zioni cre­dono all’intenzione dei nuovi pro­prie­tari di con­ti­nuare il rap­porto con la città, e gli ope­rai le rico­no­scono l’impegno di rimet­tere in sesto la fabbrica.

Poi, nel 2004, la Thys­sen Krupp annun­cia la chiu­sura del reparto magne­tico, la pro­du­zione più avan­zata. Cor­ret­ta­mente – i fatti del 2014 lo con­fer­mano – gli ope­rai capi­scono che è l’inizio di uno sman­tel­la­mento pro­gres­sivo. Cit­ta­dini, ope­rai, isti­tu­zioni sco­prono che un secolo di fidu­cia e reci­proca respon­sa­bi­lità sono sva­niti. In piazza, il sin­daco Paolo Raf­faelli denun­ciava il "tra­di­mento della parola data": "Il gioco delle tre carte dovrebbe essere una spe­cia­lità ita­lica, e invece sono i tede­schi che hanno gio­cato con le carte truc­cate". Un sin­da­ca­li­sta Cisl riba­diva: "Hanno tra­dito quel rap­porto di fidu­cia, hanno tra­dito la lealtà con cui ave­vamo affron­tato le rela­zioni in fab­brica". Gli ope­rai nei cor­tei e sui pic­chetti ricor­da­vano i padri e i nonni che in quella fab­brica ave­vano but­tato fatica e pas­sione cre­dendo che fosse la loro. L’azienda feriva, con l’economia, i sen­ti­menti, la cul­tura, l’etica, la sto­ria di una città.

L’identità tede­sca della mul­ti­na­zio­nale diventa allora il perno del risen­ti­mento, intriso di tutto l’immaginario anti­te­de­sco, dalla Resi­stenza a Italia-Germania 4–3. Ma al di là degli ste­reo­tipi, que­sto era il sin­tomo di una con­sa­pe­vo­lezza dolo­rosa: i ter­nani sono nelle mani di un potere lon­tano e inac­ces­si­bile a cui non importa niente di loro. Il sin­da­cato parla di "feu­da­le­simo indu­striale", il sin­daco accusa i "potenti signori della multi-nazionale" – dove signori rin­via più alle signo­rie medie­vali che al busi­ness con­tem­po­ra­neo: "i signori della Thys­sen e della Krupp, presi dalla loro insop­por­ta­bile dyna­sty tede­sca, dai loro intri­ghi geopolitici".

"La per­dita del posto di lavoro nell’immediato è il trauma più grosso — diceva un ope­raio — signi­fica rimet­tere in discus­sione tutto un tipo di società. Il discorso della mul­ti­na­zio­nale, i cori con­tro i ‘tede­schi’, forse signi­fi­cano che in que­sto sistema uno non ha più la pos­si­bi­lità di deci­dere sul pro­prio ter­ri­to­rio. Non hai nes­sun potere deci­sio­nale; ti senti espro­priato, vera­mente colonizzato".

Oggi que­sta fab­brica – un bene cul­tu­rale fatto di pas­sioni, lotte, saperi ope­rai, oltre che una risorsa pro­dut­tiva – è sbal­lot­tata da una mul­ti­na­zio­nale all’altra, dai tede­schi ai fin­lan­desi e di nuovo ai tede­schi come un intral­cio inde­si­de­rato. Il lavoro non conta niente, i cit­ta­dini non hanno voce, le isti­tu­zioni sono impo­tenti sul ter­ri­to­rio, inca­paci o subal­terne al governo. Dieci anni di ver­tenze ter­nane par­lano a tutti: noi siamo invi­si­bili per il potere, e il potere è invi­si­bile a noi.

Come can­tava Bob Dylan, "la fac­cia del car­ne­fice è sem­pre ben nascosta".

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