di Linda Santilli

Lo spessore di un libro non dipende dalla sua lunghezza ma dalla densità dei suoi contenuti, che a volte proprio perché concentrati nelle parole essenziali per essere trasmessi, arrivano con maggiore forza. E’ il caso dell’ultimo lavoro di Maria Luisa Boccia(*): 70 pagine che hanno la potenza di una scossa e costringono a guardare la realtà con il dispositivo della critica e senza veli.
Tempi di guerra. Riflessioni di una femminista, edito da Manifestolibri, raccoglie cinque saggi scritti dall’autrice in tempi diversi nei contesti bellici che si sono susseguiti negli ultimi 30 anni, legati tra loro dal filo conduttore della guerra in Ucraina. Ed il libro esce ad un anno esatto dall’invasione armata russa e dallo scoppio del conflitto, in uno scenario di distruzione e morte in cui ancora non si vedono spiragli per un negoziato, ma solo l’incremento delle spese militari, dell’invio delle armi e una escalation che rischia di portare la guerra a livello mondiale e nucleare.
Di una cosa è certa: nel momento stesso in cui sono entrate in scena le armi, la politica ha cessato di svolgere il suo ruolo, la nostra Costituzione si è dissolta, il protagonismo delle Nazioni Unite è scomparso, il profilo dell’Unione Europea è stato appiattito a quello della Nato. Tutto in un colpo solo. Ed è quello che è successo e sta succedendo ancora in queste ore.
Siamo in guerra. L’Italia è in guerra. Boccia lo dice forte e squarcia il primo velo per fare luce su un dato di realtà sottaciuto, anzi innominabile. Nominare la parola guerra, un atto che suona di disobbedienza, che le consente di parlare del “ripudio” contenuto nell’articolo 11 della Costituzione. Ha ancora valore quell’articolo? Parliamone.
Il nominare le cose per ciò che sono, senza falsificazioni, è l’operazione che compie per illuminare la scena dei “tempi di guerra”, che per lei si sono aperti nell’89 con il crollo del muro di Berlino e la fine del bipolarismo. Con la fine dell’URSS, saltato l’equilibrio internazionale tra le due sfere di influenza scaturito dal conflitto mondiale, gli USA si impongono come guardiani del mondo e il ricorso alla guerra torna ad essere l’unico strumento per la risoluzione dei conflitti.
Cade quindi un altro velo: non è vero che la guerra si riaffaccia in Europa dopo 70 anni per mano di Putin, come viene raccontato in modo ossessivo dai mass media, ma con la prima guerra del Golfo nel 1990, avvenuta in piena violazione della Costituzione, come denunciò Pietro Ingrao in un noto intervento alla Camera, citato nel libro, di dissenso alla partecipazione dell’Italia. Da lì in poi c’è stato il susseguirsi della lunga serie di guerre di aggressione da parte della Nato – coniate come guerre giuste - che hanno visto coinvolto anche il nostro Paese, dentro uno spaccato lacerante sul terreno delle relazioni e del confronto politico a sinistra, divisa al proprio interno su posizioni diverse. Oggi con la guerra in Ucraina, allora nella ex Jugoslavia, quando l’Italia seguì la Nato nei bombardamenti su Belgrado e a governare c’era il centro sinistra.
Ed è principalmente al mondo di sinistra, il suo, quello femminista, pacifista, di origine comunista, che è rivolta la domanda di fondo del libro: La strada percorribile è solo quella delle armi oppure c’è un’altra via?
E’ una domanda che suona scandalosa, in un clima diffuso che zittisce qualsiasi obiezione, giudizio difforme, richiesta di approfondimento e che addita il dissenso come collusione con il nemico e tradimento. Una domanda che contiene in sé la rivendicazione dell’autonomia di uno sguardo sul mondo e di una parola differente e che crea turbamento, soprattutto quando è rivolta ai propri compagni e compagne di strada che hanno sposato l’adesione alla guerra e il dispositivo mentale corrispondente senza ammettere repliche.
Per rispondere Boccia fa una operazione di decostruzione delle categorie su cui queste guerre sono state costruite e giustificate dall’una e dall’altra parte, ne svela gli inganni e le mistificazioni, a partire da quelle linguistiche, che hanno e continuano avere un grande impatto per rendere la guerra non solo accettabile, ma percepita come unica soluzione possibile. Il richiamo è a Simone Weil, a quelle che la filosofa femminista francese chiama “parole gonfie di sangue”, le belle parole usate per nascondere cose orribili e dunque “screditate”.
Kosovo, Iraq, Afghanistan, sono questi gli scenari su cui insiste l’autrice, in cui la guerra viene normalizzata e presentata per ossimori.
Il Kosovo per Boccia segna una svolta perché da lì la guerra diventa “costituente”. Con la cosiddetta operazione di polizia internazionale, che venne chiamata “guerra umanitaria”, si legittimò per la prima volta l’ingerenza in uno stato indipendente e autonomo per fini umanitari e si dette una spinta forte al fondamentalismo etico ed etnico. Sono passati 35 anni e il filo che da lì è partito continua a tessere la sua trama razzista e violenta fino ad Orban, che oggi accetta di accogliere solo migranti cristiani, al ministro Lollobrigida che lancia l’allarme sul rischio di sostituzione etnica, e ai fondali del Mediterraneo che gridano vendetta, con altri 100 corpi della recente strage di Cutro – strage di Stato - lasciati morire a 30 metri dalla costa.
Poi l’Iraq. La guerra contro Saddam, giustificata all’opinione pubblica mondiale dalla menzogna di Bush e Blair sulle armi chimiche e condannata dall’allora segretario generale dell’ONU, Kofi Annan, in quanto illegale ed in piena violazione della Carta delle Nazioni Unite. Quella aggressione inaugurò la dottrina degli USA della guerra preventiva, che diventerà lo strumento per consolidarsi come unica potenza mondiale dopo la fine dell’URSS.
Afghanistan, una guerra durata 20 anni, spacciata come guerra per esportare la democrazia e per la liberazione delle donne dai Talebani. Le macerie democratiche ed economiche lasciate in quell’area del mondo, abbandonata due anni fa dalle truppe nord americane, sono sotto gli occhi di tutti. In quel paese, come in tutte le aree in cui si è intervenuti militarmente, nessuno dei problemi politici, sociali, economici è stato risolto ma anzi i le contraddizioni si sono acuite.
E quindi gli ossimori della guerra eticamente motivata da nobili fini e per il bene: umanitaria, preventiva, per l’autodeterminazione, per esportare la democrazia e la libertà. Un grande imbroglio giocato sulle parole, in cui continua a cadere anche parte della sinistra, fino all’ultima attuale guerra in Ucraina, raccontata come guerra per la pace. Un ossimoro, quello della guerra pacifista, tra tutti il più stridente.
L’autrice avanza una critica radicale all’idea che i conflitti possano essere risolti con l’eliminazione dell’altro, alla contrapposizione amico-nemico, dove l’avversario diventa il criminale, il male assoluto. Ogni volta un nemico diverso: Milosevic, Saddam, Bin Laden, oggi Putin.
E’ il set di guerra stesso che chiede la costruzione reciproca del nemico, il mostro da annientare, e questo schema polarizzante preclude ogni possibilità non solo di comprendere gli accadimenti nella loro complessità, ma anche di uscire dalla spirale di morte dei conflitti armati e trovare una soluzione pacifica.
E’ inevitabile questo schema? È inevitabile la guerra? Torna la domanda.
Scrive:
La politica femminista che ho fatto in tanti anni ha inciso sui rapporti di dominio senza ricorrere alla forza, modificando le esperienze e le relazioni umane, conquistando i cuori e le menti ma non esercitando il potere sulle vite. Nessun sistema di potere, neppure il più dispotico, può durare affidandosi solo alla forza; per vincere deve "convincere".
La riduzione della politica a rapporti di forza basati sull'opposizione amico/nemico impedisce di vedere che nella realtà c'è altro, che sono le relazioni di reciproca dipendenza a renderla visibile. Solo se riconduciamo le differenti condizioni di vita nelle diverse aree del mondo alla comune vulnerabilità, possiamo stabilire alleanze durevoli contro la supremazia e il ricorso alla violenza. E la "fine della guerra", della logica dei rapporti di forza, contrapposizione amico/nemico, è parte del conflitto politico contro i sistemi patriarcali.
Con una presa di posizione forte l’autrice mette a valore il patrimonio delle teorie e delle pratiche femministe - in dialogo con Carla Lonzi, Hannah Arendt, Judith Butler, Virginia Woolf, Rosi Braidotti - e propone “un altro piano” del discorso. Ce lo consegna per uscire dalla logica dei rapporti di forza e di potenza, della riduzione della complessità e della pluralità delle differenze a dualismo distruttivo e a identitarismo. L’altro piano è quello della vulnerabilità, dell’accettazione della differenza e del pluralismo, della cura dell’altro e dell’altra, della interdipendenza tra le vite e della convivenza sia nei confini nazionali che a livello globale. E’ la possibilità che abbiamo per rinominare la realtà e contrastare lo “scontro di civiltà” e le derive in cui sta precipitando la contemporaneità, attraversata dalla pretesa di erigere muri, costruire confini e fortezze per arginare l’inevitabile moltiplicarsi di mescolanze tra popoli, culture, storie.
Nel reclamare una politica altra traspare non solo il patrimonio del suo vissuto femminista, ma anche la sua storia comunista, quell’agire collettivo appreso nel Pci di Pietro Ingrao. Ed è da questa doppia postazione che Boccia può affermare che la pretesa di imporre un ordine unilaterale del mondo può produrre solo distruzione e morte ed è destinata al fallimento, da qualsiasi potenza venga agita. Nessuno potrà prescindere dalla complessità e dalla pluralità di popoli, soggettività, culture, provenienze, che rappresentano oggi più che mai la cifra delle nostre vite. E siccome il terreno delle pluralità e delle differenze è quello delle guerre, se vogliamo darci un futuro siamo obbligati a porci l’obiettivo di costruire la pace come fondamento della politica, come sua precondizione.
Confrontandosi con Bobbio e poi con Balibar, l’autrice ci apre così un’altra finestra: pensare la pace come problema della politica, che significa ripensare la politica, disarmarsi anche sul piano concettuale e avere il coraggio di guardare negli occhi il fallimento dell’illusione che il pacifismo giuridico e istituzionale fosse sufficiente a garantire la pace, che la pace fosse salda nelle finalità dell’ONU, nella nostra Carta ma soprattutto nei valori della sinistra.
Maria Luisa Boccia fa cadere anche questo velo, e lancia una sfida per non soccombere.
La sinistra saprà raccoglierla?
(*) Maria Luisa Boccia, filosofa femminista, è presidente della Fondazione Crs – Archivio Pietro Ingrao

Fonte: pubblicato sul n.68 di Alternatve per il socialismo, Castelvecchi editore
 

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