di Emiliano Brancaccio

Cerchiamo di capirlo, una buona volta. Nell’epoca che ci tocca di vivere la scena politica è essenzialmente dominata da due fazioni. 

Da un lato ci sono i capitali più forti, in posizione di credito, vincitori della competizione sui mercati e per questo ben rappresentati dai partiti di orientamento liberista. Dall’altro lato ci sono i capitali più deboli, con debiti sulle spalle, che dalla lotta sui mercati escono malconci e bisognosi di prebende, e i cui interessi trovano talvolta espressione nelle cosiddette forze populiste. 

Queste due bande armate a volte si blandiscono, altre volte si scontrano, e sempre vanno a braccetto quando si tratta di schiacciare i salari e i diritti della classe lavoratrice. Che la ribalta politica, invece, non la vede da un pezzo. 

Questo semplice schema interpretativo vale oggi un po’ per tutti i grandi paesi dell’occidente capitalistico, e ovviamente vale anche per l’Italia. Con una piccola variante, però. 

Il governo di Meloni e Salvini si è reso protagonista di un interessante esercizio di equilibrismo politico. Il tentativo consiste nel rendersi servi di tutti e due i padroni. Giorgia, Matteo e gli altri ministri di turno stanno sudando le proverbiali sette camice – o sette canotte, a seconda del guardaroba - per soddisfare le pretese dei capitali forti come dei capitali deboli, dei creditori come dei debitori, delle grandi famiglie proprietarie come dei piccoli imprenditori.  

La recente imposta sui cosiddetti extraprofitti bancari è un tipico esempio di questo zelante tentativo di camerierato su due tavoli. 

Stando a dati di Bankitalia e ABI, nell’ultimo anno i maggiori gruppi bancari italiani hanno registrato aumenti delle entrate da interessi netti per circa 13 miliardi, di cui oltre 11 a carico delle imprese debitrici. Si tratta di un aumento che le banche potranno registrare pressoché integralmente sotto la voce profitti, dal momento che gli interessi passivi che pagano sui depositi della clientela sono rimasti quasi fermi. 

Lo spostamento di reddito dai debitori alle banche creditrici è indubbiamente notevole. Del resto, come abbiamo cercato più volte di spiegare, la politica degli alti tassi d’interesse decisa dalla BCE serve esattamente a questo scopo: non certo frenare l’inflazione quanto piuttosto adeguare ad essa i tassi d’interesse. L’aumento dei tassi, infatti, compensa l’erosione di valore del capitale che i creditori e le banche subiscono a causa dell’aumento dei prezzi. In sostanza, la banca centrale agisce come una sorta di “scala mobile per i capitalisti” in posizione di credito. Quelli hanno ancora l’adeguamento al costo della vita, i lavoratori ovviamente no.

Banche e creditori, dunque, calorosamente ringraziano per l’aumento dei tassi d’interesse deciso a Francoforte. Ma le imprese debitrici? Finché l’inflazione persiste, queste possono scaricare l’aumento dei tassi direttamente sui prezzi. Ma se la fase inflazionistica volge al termine allora l’aumento degli oneri sul debito non trova più sbocchi e inizia a mordere, specie per le piccole imprese con scarso potere di mercato. Che a quel punto cominciano a lamentarsi. 

Meloni e Salvini temono così che l’esercizio di equilibrismo tra i due padroni finisca tra le proteste di uno di essi: i padroncini. Per questa ragione, inventano una piccola imposta straordinaria, che dovrebbe dare un gettito di circa 2 miliardi. Una parte cospicua di queste entrate, statene certi, andrà a mitigare proprio l’onere delle piccole imprese debitrici. Sarà sufficiente per evitare una nuova rivolta degli imprenditori a rischio di insolvenza? A Palazzo Chigi ci sperano tanto. Come nel circo, l’equilibrismo tra due padroni si fa sempre più difficile ma prosegue.

Cosa resta dunque alle famiglie di lavoratrici e lavoratori alle prese con il caro mutui? Poco o nulla, per due ragioni. In primo luogo, il gettito andrà in soccorso in misura maggiore ai debitori principali, che sono imprese, per l'appunto. In secondo luogo, l’imposta non si applica sulle commissioni, e si può star certi che le banche le aumenteranno soprattutto sui piccoli depositi. La tassa sugli extraprofitti, insomma, è un Robin Hood che al limite toglie ai ricchi più forti per dare ai ricchi più deboli. Dei poveri sostanzialmente se ne frega. 

Da tutto questo si potrebbe anche ricavare un insegnamento per le opposizioni desiderose di rappresentare gli interessi della classe subalterna. Quando il governo dei due padroni getta un misero osso, è sempre meglio attaccare che scodinzolare.

Fonte: Il Manifesto

Condividi