di Daniela Frascati

Che cos’è la sorte? 
È un vicolo cieco dove vai a incontrare il tuo destino.
È un luogo carico di vapori torridi, di energie, di emozioni, che ti tira dentro e ti trattiene quando dovresti essere da un’altra parte.
È una città calpestata dai potenti dove non c’è nessun angelo Damiel a guardare dall’alto e  portare conforto.
È  uno slancio improvviso che si pietrifica per sempre.
È la ferocia programmata che non ti aspetti si mostri così nuda e indecente. 

Quella ferocia incontrò  la sorte di Carlo. 
L’aspettava a piazza Alimonda. 
Aveva pensieri cupi come la divisa.
Alle cinque e ventisette del pomeriggio del 20 luglio.
In quel luogo e in quell’attimo, non c’è posto per due.
E lui non doveva nemmeno essere lì. 
La casualità si fa  complice della sorte.
Una decisione presa all’ultimo  momento, lo scarto di una strada nel tumulto della gente che si sparpaglia e corre per ripararsi, aggredita da tutto; dalle polizie, dai lacrimogeni, dalla paura che spezza il fiato.
Uno sparo, due spari. 
L’ultimo sguardo verso il cielo così luminoso anche ora che lui muore.

Carlo Giuliani fu  la vittima che quella violenza scatenata aveva cercato. Per intimorire, per scudisciare gli ultimi epigoni del 68,  quelli del movimento del 77 e i ragazzi di un mondo nuovo, qui e ora.

Quella morte, l’uccisione di un giovane uomo armato di un estintore vuoto, a guardarla dal presente a cui siamo approdati, scosta, per una frazione temporale  il sipario di una scena nella quale siamo tutti ridotti all’impotenza; uno spazio pesante, dove non c’è fenditura né sguardo per un avvenire diverso. 
L’aberrazione di un destino collettivo dove non avremmo mai pensato di arrivare dentro un storia misera, opaca e crudele come la violenza di quella morte.  

Eravamo al terzo governo Berlusconi, ma Genova era stata preparata prima, da ministri del centro-sinistra e, del resto, c’era già stata Napoli. Berlusconi e i suoi  ci aggiunsero la protervia dei parvenu alla ribalta dei grandi del mondo e l’arroganza di un vice premier, ex fascista, che dirige le operazioni dalle stanze della questura e può finalmente presentare i suoi conti personali a chi  ancora si riconosce nei valori della Resistenza e della Costituzione.

Eppure le cose erano già guaste. Malgrado le migliaia di Genova, il senso comune, modellato sugli immaginari televisivi e sull’Unto dal Signore, aveva già rinchiuso quella moltitudine nel silenzio dei marginali. 

Genova fu sottratta alle regole della democrazia. Da città luminosa e nobile, fu in quei tre giorni, resa un luogo di torture e di abusi.  
Il G8 fu il set di una guerra civile. Una scelta pensata, predisposta a tavolino, preparata tra i reparti delle forze militari in campo per annientare e ammutolire con ferocia il movimento no global e le migliaia di cittadine e cittadini che avevano nel cuore e nella mente l’utopia di un altro mondo possibile.

Qualcuno  nelle giornate di Genova aveva deciso di torcere la storia di questo paese, piegarla dentro la morsa della violenza, condensando in soli tre giorni efferatezze da Cile di Pinochet, come alla Diaz, come a Bolzaneto, mentre per le strade imperversava  una sorta di addestramento del nuovo esercito, ché il tempo della guerra, da scontro di civiltà e di popoli, sarebbe sopraggiunta da lì a pochi mesi. 

Dieci anni sono un soffio, un respiro visti da dove siamo ora. 
Ma in questo soffio il mondo è diventato altro, e non è l’altro del desiderio dei giorni di Genova. 
Siamo arrivati in un tempo in cui la politica è puro esercizio di potere ed espropriazione di vite. 
Forse, ora,  si può fare anche a meno di uccidere, tanto nessuno stringe più tra le mani estintori fuori uso. 
I desideri sono a brandelli come le bandiere arcobaleno  e ciò che ha preso il sopravvento è la rassegnazione. 
Non c’è altro mondo possibile oltre l’orizzonte degli eventi.

Eppure, appena più in là dei nostri confini, le insurrezioni che rovesciano tiranni sono giustificate e  il tiranno del vicino, come l’erba, è sempre più verde e assoluto di quello che coltiviamo nel giardino di casa nostra. 
E allora lasciamo che tutto accada con facilità e ferocia. 

Si è rivoltato il mondo e noi siamo qui a guardare, misurando il tempo sugli accadimenti delle nostre singole vite: matrimoni finiti, amori consumati, una nuova casa, amici persi, amici trovati, nuovi amori, un’altra città, una ruga più profonda, la prima ruga. Qualcuno avrà avuto un figlio, altri avranno perso un padre, una madre. Qualcuno avrà fatto i conti impietosi con il dolore e con la malattia. 

Quel 20 luglio di Genova è lontano come il maggio francese. 
Una  memoria che rinnova la delusione del presente dentro un tempo immobile e sfinito.

Fonte: Per Sempre Ragazzo – Tropea ed. Un libro collettivo Per Carlo Giuliani a 10 anni dalla sua uccisione

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