di Domenico Quirico 

Promossi. Qualcuno addirittura con lode. L’Europa ha passato il severo esame di Zelensky: le democrazie non sono tentennanti, pacifiste, o peggio ancora collaborazionisti mal travestiti. Garantisce lui. Sospiro di sollievo, da Londra a Roma: possiamo andare avanti, tenendo comunque le spalle al sicuro. Tutti hanno pagato la tassa necessaria per non finire impancati da Kiev nel girone dei cripto putiniani, quindi all’indice, condannati , maledetti. Dal viaggio europeo del presidente ucraino solo gli ingenui in modo irrimediabile vaticinavano chissà quali aperture al dialogo e alla tregua. Quello che è sbalorditivo è il modo repentino con cui è cambiato il tono, l’atteggiamento della Guida suprema ucraina nei confronti dei suoi interlocutori che rappresentano, bene o male, una quota della potenza (economica) del mondo. Preistorici i tempi in cui Zelensky ripeteva quel suo nitido piagnisteo: siamo schiacciati dal destino, siamo la vostra prima linea, dateci armi... Alla vigilia della Controffensiva è arrivato il momento di struccarsi e togliersi il costume del questuante. Ormai in permanente tenuta simil-maoista, versione felpa militarizzata, che indossa con la disinvoltura di una seconda pelle, è sceso tra gli alleati recitando la parte del corrucciato, ieratico eremita guerriero, che segue strategie in parte occulte ma comunque formidabili, e che accetta di formare con noi europei una società forse solidale ma scettica.

E l’uomo che adesso frequenta la Vittoria, che cammina la Vittoria; un luogo ostile, difficile. Ma dopo più di un anno è il suo luogo. Certo non dei suoi mediocri interlocutori che ciabattano trafelati al massimo i sentierini dei sondaggi; in tutto ciò che non è denaro e retorica lenti, perplessi, discontinui. Quale contrasto con il Comandante deciso, svelto, secco, che volta perentoriamente pagina: pace? Trattative? Mediatori? Non servono, scavalchiamo tutto con la “formula ucraina’’, la vittoria. È una immagine forte, aspra, di esplicito eroismo, necessaria per affrontare la durezza dell’offesa nemica, della brutalità della storia con la s maiuscola. Altro che i nostri brividini per le elezioni europee del prossimo anno.Penso che Zelensky, in fondo, ci disprezzi, noi imboscati di ferro, eroi della sana paura. Apprezza, e non è un paradosso, la aritmetica della pura forza, che è la matematica di Putin. Gli siamo utili per modificare i numeri della mortale equazione con il nemico russo. Tutto lì. I premier, i presidenti che ha incontrato? Tremebondi, che si affannano a implorare la foto consacratoria al suo fianco, che promettono devotamente, con ululati di tripudio, armi e soldi per sempre, «fino a quando sarà necessario» come decide lui. Insomma: un Occidente dignitosamente desolato, un deprimente lunapark un po’ in disuso, impegnato ad affumicare alle radici il sincero dall’utilitario. Come si spiega questa stupefacente Inversione dei ruoli: l’ex questuante sull’orlo della catastrofe personale e collettiva del febbraio dello scorso anno che ora detta, ordina, corregge, padrone dei suoi indispensabili benefattori? E i generosi samaritani che hanno vuotato arsenali e intristito i bilanci che si affannano a non chieder nulla in cambio, che rifiutano perfino di dare consigli per timore di esser bollati come apostati? La risposta è nella debolezza di coloro che hanno fatto corona al visitatore ucraino, nella loro coda di paglia. Zelensky ha capitalizzato questa fragilità. Tutti in Europa hanno bisogno della guerra combattuta dagli ucraini per tamponare consensi in discesa, coprire con infettivo entusiasmo di crociata giusta impicci interni, nutrire di altra biada opinioni pubbliche scettiche e severe, garantire legittimazioni internazionali zoppicanti. «Aiutiamo l’Ucraina contro l’assalto del nuovo Hitler» ripetono in coro, che volete di più? E così si tira avanti, si posticipano i malumori. Insomma niente eroismi democratici, sono in corso nei governi europei semmai i soliti lavori di bassa lega. Si elabora la tattica della distrazione metodica. Macron, che la legislazione gollista pone al di sopra ormai della cronaca visto che non potrà correre per una rielezione, con le barricate nella sua capitale, lotta però per evitare la scomparsa del suo partito molto finto, senza eredi. Il sostegno all’Ucraina è il poco che gli resta, abbandonate le velleitarie aspirazioni al ruolo di mediatore, l’unico che telefonava anche a Putin. Audacia da “grandeur’’ che rischiava di costargli una fulminante scomunica. Il cancelliere tedesco Scholz ha superato l’esame con una risicata sufficienza. Zelensky lo tiene d’occhio, sa che le idee morte merkerliane, ovvero il rapporto speciale con Putin, i vantaggi del gas russo, non cessano di esser pericolose a Berlino. Anzi lo sono ancor di più quando hanno strascichi di esistenza fittizia. Ha dovuto impegnarsi, vuotare le tasche versando un altra cateratta di armamenti per dimostrare la sua lealtà. Come ai tempi dei Krupp restano i carri armati e i cannoni la miglior carta tedesca. Il governo italiano gioca una carta ancor più delicata: l’allineamento alla Nato sempre più americanizzata vale per gli eredi del fascismo, o del post fascismo, come l’autorizzazione a esser ammessi nel salotto buono senza percettibili aggrottamenti dei padroni di casa. Il britannico Sunak poi, in quotidiano rischio di finire licenziato dall’opinione pubblica come i due predecessori, è obbligato a essere il primo della classe: l’Ucraina offre all’ex potenza britannica ridotta a rissosa isoletta una sorta, in politica estera, di replica imbalsamatoria delle scintillanti cerimonie della casa reale. Missili, aerei (arriveranno anche quelli all’incontentabile Zelensky) per rivivere una nuova Crimea: come ai bei tempi di lord Raglan e della carica di Balaclava.

Fonte: La Stampa

Condividi