di Giuliano Pennacchio*
Il nuovo sistema federale dello stato in via di attuazione appare incentrato sul trasferimento delle funzioni amministrative dallo stato alle regioni e agli enti locali, la determinazione di costi standard dei servizi erogati dalle regioni, l’istituzione di un fondo perequativo nazionale tra le disponibilità finanziarie di queste ultime. Ma quest’impostazione appare in parte inadeguata ai problemi del Mezzogiorno a causa del debole grado di sviluppo di questa parte del paese. Al contrario sarebbe necessaria allo sviluppo del Mezzogiorno una più forte integrazione al resto del paese.

Nel Mezzogiorno risiede un terzo della popolazione italiana ma si produce soltanto un quarto della ricchezza nazionale e un decimo delle esportazioni. Inoltre nel primo trimestre del 2010, secondo l’ISTAT, il tasso di disoccupazione risulta nel Mezzogiorno pari al 14,3% per gli uomini e del 17,6% per le donne. Inoltre (dato del 2009) la quota della popolazione in possesso di titoli di studio elevati (diploma e laurea) appare inferiore nel Mezzogiorno: guardando alla popolazione tra 25 e 64 anni di età i diplomati risultano pari al 33,7% nel Mezzogiorno contro il 42,4% del centro-nord, i laureati il 12,6 % contro il 15,5%.

Il divario economico tra nord e sud del paese continua perciò a essere ampio. Il PIL del Mezzogiorno vale circa la metà rispetto di quello del nord. Nel Mezzogiorno la ricchezza media pro-capite raggiunge i 17.900 euro, contro i 31 mila del nord. In fondo alla classifica c’è la Campania, dove il PIL pro-capite è pari a 16.900 euro.

Il tipo di federalismo in via di attuazione non prevede, nel quadro del trasferimento delle funzioni fiscali dallo stato a regioni ed enti locali, un riequilibrio nella redistribuzione delle risorse fiscali che tenga conto delle necessità di base del Mezzogiorno. Questo è il punto più drammatico di questo federalismo: la non corrispondenza tra distribuzione regionale della spesa e distribuzione regionale degli importi dei tributi percepiti dalle regioni. Sarebbe quindi necessario un programma di trasferimenti finanziari che consenta alle regioni più povere di mantenere i livelli necessari di spesa: ma questo programma non c’è. Anzi, poiché è già in corso un notevole taglio dei trasferimenti statali agli enti locali, ciò farà sì che i comuni saranno costretti a chiedere imposte più alte ai cittadini; come si vede dal fatto dell’unificazione delle imposte sugli immobili, non solo l’aumento delle imposte peserà su tutti i contribuenti ma, poiché le popolazioni del Mezzogiorno sono più povere di quelle del resto del paese, c’è che molte amministrazioni comunali saranno costrette a chiedere risorse alle amministrazioni regionali. E’ anche lecito chiedersi come molte amministrazioni locali saranno in grado di rapportarsi ai fabbisogni standard (essenziali) di servizi che questo federalismo definirà: molti di essi, in ragione di molte difficoltà, non conoscono gli effettivi costi dei servizi che gli fanno capo. E, in ogni caso, vale che la tendenza del governo Berlusconi, sotto la pressione della Lega Nord, è a definire i costi standard di servizi senza tenere in alcun conto i fattori ambientali, contesti sociali, differenze di reddito e quant’altro comporti maggiori costi a parità di efficienza degli enti erogatori.

Infine, dato questo quadro dalle tinte non buone, il federalismo potrebbe anche determinare, nel medio periodo, parametri riguardanti le retribuzioni dei lavoratori differenziati tra nord e sud? E’ presto per rispondere ma le premesse perché a ciò si arrivi cominciano a esserci, sia sul versante delle attività private che di quelle pubbliche. Il Piano triennale per il lavoro, approvato il 30 luglio 2010, dal Ministro del lavoro contiene una forte intenzione di deregolamentazione della contrattazione collettiva del lavoro. Vi si legge, infatti, come “gli stessi diritti – e ancor più le tutele che li sostengono – possono essere solo in parte generalizzati e sanzionabili”, richiedendo infatti quei “contenuti regolatori promozionali che, soprattutto la contrattazione collettiva e gli enti bilaterali, potranno esprimere nelle diverse condizioni di settore, di territorio e di azienda”.

Concludendo il federalismo dovrebbe realizzarsi con una velocità variabile poiché si innesta in un sistema economico profondamente differenziato e nel quale la spesa ulteriormente decentrabile si concentra prevalentemente al Sud, mentre le risorse per finanziarla si collocano al centro-nord. C’è il rischio di un forte conflitto e che esso assuma, nei prossimi anni, dimensioni tali da impedire di tenere il federalismo nel solco del dettato costituzionale.

Al fine del contrasto a questo federalismo e della prevenzione di questo rischio occorre inoltre individuare temi e percorsi di un’iniziativa politica su scala nazionale che affermi il diritto di tutti i cittadini italiani ad usufruire eguali servizi in tutto il territorio del Paese; un funzionamento ‘equo e solidale’ del fondo perequativo nazionale (per scuola, università sicurezza, stato sociale, ect.) vagamente ipotizzato dalle forze di governo.

*Pubblicato sulla rivista ‘Progetto Lavoro, per una sinistra del XXI secolo’

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