di Astolfo Lupia

Dieci anni che Paolo è andato via, salpato per una destinazione che non ammette il ritorno. Immeritatamente, avrebbe detto lui. Nessuno merita di partire, nessuno; e poi con tanto anticipo. Lo conobbi nella calda primavera del duemilatre, qualche giorno prima Bush aveva attaccato l’Iraq. Spiravano venti di guerra ed io mettevo per la prima volta piede a Perugia. Eravamo al vecchio Parigi, alla Pallotta. Era tanta e varia la gente che transitava da lì, tipi strani, avrebbe detto e cantato Faber : reduci croati con cicatrici nel corpo e nell’anima, spacciatori che con spavalda gentilezza ti chiedevano se volevi coca, roba o spezie varie, studenti fuori sede e fuori di testa coi capelli tendenti al grigio, pensionati che discutevano del bel tempo andato e che si giravano ammirati a toccare con gli occhi il culo delle donne, tanto altro ancora. Fu lì, allora che mi si offrì la singolare fortuna di incontrarlo. Era fatale che, in capo a qualche giorno cominciassimo a scambiare qualche battuta. Le magnifiche sorti e progressive del movimento operaio mondiale, la non violenza, Bertinotti; il Social forum a Porto Alegre, quello di Firenze e poi la poesia: l’anticipo attuale di quella rivoluzione che sarà, prima o poi, ineluttabile. Il suo era un ottimismo inguaribile, un tripudio esuberante della volontà che se ne fotteva con gioia straripante delle trappole algide della ragione. Poi scoprimmo il comune legame col Nicaragua: “Ay Nicaragua Nicaraguita, la flor mas linda”. L’ospedale a Muy Muy, il grande lago col vulcano, il comandante Borje, Daniel Ortega, la memoria di Augusto Sandino. E poi, un giorno la rivelazione. Da Managua a Rogliano, la Rogliano di Calabria, come amava chiamarla lui. Il suo legame con quella terra, meno lontana dell’esotico Centroamerica e che mi ha visto nascere. E il cognome della parte materna della sua famiglia, che era lo stesso di quello di mia madre, con qualche lieve differenza dettata dalla disinvoltura con cui un tempo venivano registrate le nascite dalle mie parti. Il legame con Antonio Guarasci, suo zio e primo presidente democristiano della regione, morto prematuramente anche lui; gli fu fatale un incidente. Nonno, gran suonatore di mandolino e fervente scudo crociato andava orgoglioso della parentela con il presidente, la dava per certa. Mai ho verificato l’attendibilità del suo racconto e non sono affatto certo che corrisponda al vero. Decidemmo di comune accordo con Paolo di darlo per vero. Da allora ci considerammo “parenti”, così per prenderci in giro l’un l’altro. Ci piaceva giocare e giocavamo. Dieci anni fa, tragicamente, quel gioco si è interrotto. Oggi ricevo da Stefano, il fratello, questa immagine che ritrae il presidente assieme ad Italo Vinti, il leggendario padre del compagno Paolo. Ieri è morto El Pibe, Paolo non c’è più. Bisogna provarci, come allora, a giocare.

Hasta siempre.

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