Di Luciana Castellina - Il Manifesto del 08 febbraio 2011
Due cose appaiono evidenti nella vicenda egiziana e degli altri paesi arabi in rivolta. Due cose non simili, perché una era scontata, l'altra no. La prima sapevamo già da tempo che sarebbe stata così: ai primi sintomi di una protesta che reclama democrazia, l'occidente - noto paladino del concetto, cui ha offerto sostegno persino con i propri eserciti - anziché plaudire ha preso paura. La parola che più figura nei commenti istituzionali, non a caso, è in proposito «preoccupazione». Anche maggiore nel business. «La democrazia ha molte implicazioni economiche e finanziarie», si lamenta un guru dell'Accademia americana, Nouriel Rubini.

E poi parla del prezzo del petrolio, il cui aumento è all'origine di tre delle cinque crisi recessive mondiali, senza contare l'ultima che ha avuto l'aumento del costo del barile, nel 2008, assai più che il dramma dei mutui subprime del 2007, come elemento scatenante. Che accadrà se gli arabi dovessero sottrarsi al controllo dei ras imposti dall'occidente? Meglio non fidarsi. E infatti il dilagare della protesta viene definita «contagio», come se la richiesta di libertà fosse una malattia.

L'esperienza ha infatti dimostrato - si conclude - che i risultati di elezioni vere ha dato finora solo «risultati deludenti», come insegnano quelle a Gaza, nel Libano, in Iraq. Aihimè! La seconda cosa che è emersa è invece sorprendente: a livello politico l'Occidente, e in particolare l'Europa che pure è contigua al nord Africa, di cosa sia la società araba del 21mo secolo non sa praticamente niente. E perciò ha potuto continuare a minacciare l'arrivo di Ahmadinejad fino a Rabat, se solo ci si permetteva di rimuovere i locali giannizzeri. La politica, non solo quella di destra, ha continuato a nutrirsi di tutti i possibili stereotipi e le idee dei suoi esponenti sono il frutto di una sconfinata, distratta ignoranza.

Su tutto: sull'Islam, considerato come un blocco monolitico anziché come è un mondo estremamente variegato, come e più di quello cattolico: sia dal punto di vista religioso (nessuno sembra aver mai avuto la curiosità di leggere e approfondire il Corano) che culturale; su cosa pensano davvero le donne, sui loro movimenti reali, sulla nuova assai interessante ricerca femminista in atto in molti paesi e che coinvolge persino le teologhe; sulla letteratura. Al di là dei più noti - il premio Nobel Naguib Mahfouz, dell'autore di Palazzo Yacobian, Alaa al Aswarny, poco o niente si sa (qualcosa è stata tradotta solo in Inghilterra ) della nuova ondata di giovanissimi prolifici autori egiziani, arrabbiati e delusi ma non Fratelli Musulmani, la «generazione 1990», come viene chiamata, che non fa parte dell'élite ma proviene dalla «città dei funghi», il suburbio abusivo di case fai da te, costruite una sull'altra, senza fogne né servizi igenici, che corrisponde al 60% dell'espansione urbana del Cairo.

E poi il proliferare delle TV arabe, non solo Al Jazeera, ma una miriade di stazioni che hanno cambiato l'immaginario dei giovani, così come Internet, che solo ora ci si accorge quanto abbia inciso. Chi si era accorto dei bloggers, che non erano una rete di studenti distaccati, visto che il 6 di aprile scorso hanno celebrato l'anniversario delle lotte operaie di Helwan che hanno scosso l'Egitto, senza che dal sindacato europeo venisse molto di più che un saluto di incoraggiamento? Forse sarebbe ora di rendere merito ai militanti del Forum Sociale Mondiale, che in questi giorni tiene il suo appuntamento a Dakar, e che nei dieci anni che sono seguiti al primo raduno a Porto Alegre, hanno tessuto - ignorati dalla politica istituzionale - un prezioso tessuto di rapporti con la sconosciuta società civile araba, promuovendo i Forum regionali nel Mashrak e nel Maghreb, primi embrioni di una nuova opposizione laica e strumenti di dialogo non subalterno con il resto del pianeta.

Non c'è ancora, in Egitto, è vero, una compiuta alternativa politica al regime, ma c'è una opposizione sociale, che nulla ha a che vedere coi Fratelli Musulmani, e invece piuttosto con il sedimento lasciato da Kifaya (Basta!), il movimento che si era attivato in occasione delle elezioni del 2005, animato anche dagli eredi non ancora liquidati del marxismo egiziano,e soprattutto dai nuovi sindacati indipendenti e da un proliferare di Ong. È di qui che occorrerebbe partire. E per concludere: l'Europa. Da 39 anni ha lanciato il dialogo euro mediterraneo. Dal 1972 a oggi, passando per l'assai conclamato accordo di Barcellona del 1995, fino al bluff del presidente Sarkozy di due anni fa, ha cercato di gettar ponti sul solco che divide la sponda nord e quella sud del Mediterraneo, la frontiera più drammatica del mondo (un divario nel reddito procapite di 1 a 14, assai peggio di quello pur tremendo fra Messico e Stati Uniti, che è «solo» dell'1/6).

Ma lo ha fatto senza tener conto di cosa significa liberalizzare gli scambi e fare quelle che vengono chiamate «riforme» e si tratta solo di privatizzazioni e liberalizzazioni, quando la sproporzione fra le economie è tanto grande. Sicchè oggi è possibile che si chiedano, accorati e come se fossero stati traditi: come mai nonostante proprio l'Egitto sia stato lodato dal Fondo Monetario Internazionale per l'ampiezza con cui ha varato cotali «riforme», e la Banca Mondiale abbia proprio quest'anno collocato il Cairo in cima alla classifica dei bravi «riformatori», questo non abbia contribuito a render felici gli egiziani, ma sembri anzi aver addirittura accelerato la protesta? Già: come mai? Come mai l'Europa non ha saputo prender atto che grazie anche a quelle «riforme» ci sarà bisogno, nei prossimi 10 anni, nel solo Maghreb, di 23 milioni di nuovi posti di lavoro e che sarà perciò inevitabile una pressione migratoria massiccia. Cosa pensano di fare a Bruxelles: usare la bomba atomica per bloccarla?

E allora forse avrebbero dovuto pensare a un grande storico compromesso sociale, analogo a quello che nel dopoguerra si è realizzato, con qualche successo, in Europa fra capitale e lavoro, in questo caso da stabilirsi fra le due sponde del mediterraneo per pensare assieme ad una comune strategia di sviluppo a lungo termine. Lo aveva proposto anni fa Samir Amin, e l'idea era stata ripresa in molte occasioni,ma, ovviamente, è stata lasciata cadere. L'Europa, si sa, non dialoga: decide. Adesso sono tutti spaventati e ripetono lo splendido ossimoro di Tony Blair: «Occorre un cambiamento stabile».

Tanto da non cambiare niente. Il grande poeta siriano, Adonis, aveva scritto nel suo «La preghiera e la spada» che la liberazione dell'arabo dall'occidente, che è il suo primo problema , deve però "iniziare in terra araba, con l'istituzione della democrazia come sistema di vita e di dialogo". Purtroppo il dopo Mubarak è stato già sequestrato, ancora una volta dall'occidente: il negoziato si svolge a Washington anzichè al Cairo. E tanto peggio per la democrazia.

Da controlacrisi.org

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