di Elio Clero Bertoldi
PERUGIA - Festeggiano i 50 anni dalla scoperta i Bronzi di Riace, ma non li dimostrano, forti come appaiono della loro immortalità quali opere d’arte. 
In Calabria sono cominciate tutta una serie di iniziative per l’occasione a vari livelli ed a 360 gradi, le cui date é possibile consultare sul sito “bronzidiriace50”, sull’hastag ufficiale #bronzi50, su Facebook e su Istagram.
I due bronzi - catalogati come “A” (alto 1,98), il guerriero più giovane e “B” (1,97 di altezza), il più maturo di età - vennero ripescati nell’agosto del 1972 a 300 metri dalla riva ed a 10 metri di profondità davanti a Riace Marina, tra Locri e Punta Stilo, grazie al sub Stefano Mariottini, cui venne riconosciuto il premio di 125 milioni come sentenziato dal tribunale di Roma nel 1977.
Alle delicate operazioni di recupero - le due statue pesano intorno ai 160 chili - presenziò l’archeologo Pier Giovanni Guzzo e collaborarono i sub dell’Arma dei carabinieri di Messina. Gli elmi, le lance e gli scudi che i due guerrieri indossavano, stringevano nel pugno e sostenevano al braccio non sono stati stati ritrovati: o sono rimasti nel fondale marino o sono spariti prima del recupero in mare, oppure nelle fasi, concitate, del ritrovamento.
In questi cinquanta anni la domanda principale riguarda chi rappresentino le due splendide statue bronzee. Le ipotesi, nei decenni, si sono accavallate. 
Fin dall’inizio le ricostruzioni più convincenti hanno posto in relazione i due guerrieri con il mito dei “Sette contro Tebe”. E negli ultimi tempi questa supposizione si é rafforzata. Alcuni studiosi sostengono che gli scultori abbiano riprodotto Eteocle e Polinice, i due fratelli in lotta per il regno della città, dopo l’allontanamento e la morte del padre Edipo e che i due bronzi facessero parte addirittura di un gruppo di cinque sculture, in cui figuravano pure la madre dei due, Euriganea (seconda moglie di Edipo, dopo Giocasta) l’indovino Tiresia e Antigone, la sorella dei germani in lotta feroce per il trono, poi condannata a morte dal nuovo re Creonte, per aver reso onoranze funebri e seppellito - nonostante l’ordine contrario del sovrano - i miseri resti di Polinice.
L’interessante ricostruzione é stata avanzata alla luce di alcuni riscontri letterari: del gruppo di statue presente a Roma parlano Publio Papiro Stazio nell’XI libro della “Tebaide” e Stesicoro di Metauro in una sua opera.
Le cinque statue sarebbero state il frutto del bottino di guerra, razziato come indennità per risarcire le spese del lungo conflitto, nel 146 a.C. da Lucio Mummio, detto Acaico, proprio per aver battuto e distrutto la Lega Achea nella battaglia di Leucopetra, che segnò la fine dell’indipendenza della Grecia. La stessa città di Corinto, ultimo caposaldo e punto di riferimento della Lega, venne saccheggiata e completamente distrutta (proprio come Cartagine qualche lustro prima), su decreto del Senato di Roma. Curiosità: la famiglia di Mummio pare fosse originaria di Nursia (Norcia), dove il console trionfatore inviò diversi oggetti preda del conflitto, come fece con Trebula Mutuesca, nel vicino reatino, dove era nato.
Le statue - lo affermano studi specifici - sarebbero state fuse ad Argo nel Peloponneso nella metà del V sec. a.C.: lo dice l’analisi dell’argilla (é stata individuata persino la cava dalla quale proviene), servita per la stampa in cera. Rimaste a Roma per secoli, durante il regno di Costantino (o del figlio Costanzo II), le statue sarebbero state caricate su nave per essere trasportate a Bisanzio, dove era stata trasferita la sede dell’Impero Romano. Durante il tragitto i pesanti manufatti sarebbero stati gettati in mare, nel corso di una violenta tempesta, per alleggerire il legno che le trasportava e nel mare Ionio sono rimaste fino a mezzo secolo fa. Gli esperti sono convinti che anche le altre tre statue si trovino tuttora sul fondo marino, tanto che le ricerche, mai sospese, sono ancora in atto, coordinate dalle istituzioni archeologiche della Calabria.
Resta pure l’incertezza sullo scultore che, con tanta grazie e perizia, le ha modellate e forgiate. Chi indica Fidia, chi propende per Mirone, chi suggerisce Policleto. Ultimamente si é fatta strada l’idea che l’artista possa essere stato Pythagoras di Reggio per alcune analogie riscontrate con altri lavori attribuiti all’artista.
Di certo dal momento della fusione ed almeno fino al trasporto a Roma, i guerrieri si presentavano con i capelli biondi e col corpo dorato (come l’Afrodite del Museo di Napoli). Non solo: uno dei due eroi mitici presenta la caruncola lacrimale rosa; entrambi mostrano le pupille di calcite (quarzo) di colore ambrato, per richiamare gli occhi dei leoni. La tinta nero lucido delle due opere d’arte sarebbe il frutto di una ripittura, con l’utilizzo di zolfo, avvenuta in epoca romana, nel corso della quale le statue avrebbero subito anche restauri e ritocchi. 
 

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