di Andrea Colombo

A gamba tesa e senza remore. L’arbitro Gior­gio Napo­li­tano scende in campo come il più sfe­ga­tato dei pasda­ran e mitra­glia il mitra­glia­bile: l’art. 18 (par­don, le sue misere vesti­gia) e con lui l’intero Sta­tuto dei lavo­ra­tori. Il Paese non può più “essere pri­gio­niero di con­ser­va­to­ri­smi e cor­po­ra­ti­vi­smi». Il Colle con­fida "nella con­cre­tiz­za­zione degli impe­gni assunti dal gover­no­per il supe­ra­mento di situa­zioni ormai inso­ste­ni­bili". Poi l’affondo: "E’ inu­tile sbrai­tare con­tro la Ue. L’Italia e l’Europa pos­sono uscire dalla crisi solo con poli­ti­che nuove e corag­giose per la cre­scita e per l’occupazione"

E’ un pro­nu­cia­mento a fianco di Renzi e della sua riforma. E’ un atto di fede nei dogmi, pur smen­titi dalla realtà, per cui solo sac­cheg­giando diritti si pos­sono risol­le­vare le sorti dell’economia e creare posti di lavoro. E’ una levata di scudi con­tro la Cgil, con­tro l’opposizione, con­tro mezzo Pd. Dalla Sili­con Val­ley Renzi duetta: "Sono con­sa­pe­vole che alcune cose vanno cam­biate in modo vio­lento. Arriva il momento che per fare con­tenti tutti fac­ciamo arrab­biare qual­cuno". Che il pre­si­dente del con­si­glio pro­ceda a passo di pan­zer è com­pren­si­bile: la riforma è sua, ovvio che la difenda a spada tratta. Molto meno con­sueta la spa­rata del capo dello Stato.

Se Napo­li­tano ha avver­tito il biso­gno di esporsi fino a que­sto punto, di pren­dere la parola non come un pre­si­dente della repub­blica ma come un par­la­men­tare d’assalto è per diversi motivi. Prima di tutto l’inqulino del Qui­ri­nale è con­vinto, come Renzi, che la maz­zata con­tro i dei diritti e con­tro i sin­da­cati sia il lascia­pas­sare per otte­nere vin­coli meno rigidi dall’Europa. In pri­vato gli uomini del pre­mier nem­meno fin­gono di nascon­derlo. Ammet­tono senza peri­frasi che l’obiettivo prin­ci­pale del job acts, che approda oggi nell’aula del Senato, è pro­prio con­vin­cere l’Europa del "corag­gio" del governo ita­liano. Da que­sto punto di vista, il brac­cio di ferro con la sini­stra interna del Pd e con la Cgil non d ispiace affatto a Renzi. Per dimo­strare il pro­prio valore c’è biso­gno di qual­che «resi­stenza con­ser­va­trice», sennò sarebbe troppo facile e poco meritorio.

In secondo luogo, però, Napo­li­tano guarda alla poli­tica interna. Fi, come ampia­mente pre­vi­sto, ha lan­ciato la sua offen­siva: "Siamo pronti a votare anche la fidu­cia — dice Bru­netta — se Renzi non fa mar­cia indie­tro. Ma se la fidu­cia pas­sasse solo gra­zie al nostro voto non ci sarebbe più mag­gio­ranza, con tutte le con­se­guenze del caso". In realtà la stra­te­gia di Fi è più arti­co­lata. Certo, se la fidu­cia fosse otte­nuta solo gra­zie al "soc­corso azzurro", pro­messo ieri anche da Toti, il cam­bio di mag­gio­ranza e la rina­scita anche uffi­ciale delle lar­ghe intese sarebbe ine­vi­ta­bile. Ma anche qua­lora la legge sul lavoro fosse appro­vata senza fidu­cia però con i voti azzurri deci­sivi e non aggiun­tivi il risul­tato sarebbe quasi iden­tico. For­mal­mente Fi reste­rebbe all’opposizione, ma sarebbe del tutto evi­dente che l’asse sul quale si regge la poli­tica eco­no­mica del governo è lo stesso che sostiene le riforme isti­tu­zio­nali: il patto del Nazareno

E’ que­sto che Renzi vuole evi­tare, per motivi d’immagine più che sostanza, e Napo­li­tano è del mede­simo avviso. L’intemerata di ieri è stata soprat­tutto un mes­sag­gio con­tun­dente inviato ai riot­tosi del Pd. Sta­mat­tina i gruppi par­la­men­tari demo­cra­tici affron­te­ranno il nodo. All’assemblea dove­reb­bero par­te­ci­pare il respon­sa­bile Lavoro del Pd Tad­dei e il mini­stro Poletti, la cui pre­senza però è diven­tata all’ultimo minuto incerta. Sull’esito del brac­cio di ferro non ci sono dubbi. Ove il soste­gno al job acts non fosse certo, Renzi rico­rer­rebbe alla fidu­cia pur di non dover con­tare alla luce del sole sui voti dete­ri­nanti del socio di Arcore. Negare la fidu­cia vor­rebbe dire per i sena­tori ribelli del Pd pro­vo­care la ele­zioni anti­ci­pate, con cer­tezza di non rican­di­da­tura. Scelta priva di suspence: si pie­ghe­reb­bero come giunchi.

Però far pas­sare con la fidu­cia una legge che segna una ferita pro­fon­dis­sima per la stessa base elet­to­rale del Pd non è deci­sione che si possa pren­dere a cuor leg­gero. E’ d’obbligo ten­tare di otte­nere la resa dei dis­si­denti senza ricor­rere subito al voto di fidu­cia. Come? Con il bastone, soprat­tutto, ma anche un po’ con la caro­tina. Ieri sono arri­vate le maz­zate di Napo­li­tano, di Renzi, e quelle anche più pesanti di Lotti: "Chi ha perso le pri­ma­rie non può det­tare la linea". Oggi al pugno di ferro si accom­pa­gnerà la ricerca di una media­zione di fac­ciata: diritti a pezzi, ma il govrno garan­tirà ammor­tiz­za­tori a volontà. Con quali soldi resterà misterioso.

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