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In guerra si uccide e si è uccisi. Per l'Afghanistan questa macabra contabilità ha un sussulto mediatico solo quando le vittime sono italiane . La strategia "embedded" si avvale della cosiddetta "informazione intermittente". Ovvero si accende l'attenzione solo quando arrivano drammatiche notizie come quella di ieri con l'uccisione e il ferimento dei militari italiani. Ma quanti "nemici" o vittime collaterali le forze armate italiane abbiano provocato in 8 anni di compartecipazione all'occupazione dell'Afghanistan, non ci è dato sapere. Negli ultimi mesi la Nato ha portato avanti una vera escalation. L'Italia ci ha aggiunto i Tornado che dal cielo non lanciano certamente caramelle. Le nostre truppe dipendono direttamente da un comandante statunitense. Il reparto colpito dai Talebani era, non a caso, misto. Non c'è più tempo di salvarsi la coscienza o di ritagliarsi una enclave meno cruenta. Lo stesso Obama aveva chiesto agli alleati maggiore responsabilità nella guerra. Nel pantano afghano si affoga insieme, nell'illusione che possa esserci quella soluzione militare portata dall'invasione straniera così clamorosamente fallita già dall'impero britannico e dai sovietici. Le vittime italiane- e quelle provocate dagli italiani - sono destinate a moltiplicarsi. Per un gioco del destino la notizia dei nuovi morti italiani - siamo già a 27 - arriva il giorno dopo Perugia-Assisi. Eppure tra quel grido di pace e il Palazzo che piange le vittime e ne pianifica di nuove, non c'è alcuna relazione. La guerra ormai è un abitudine trasversale, una normalità alla quale solo qualche riottoso estremista non vuole abituarsi. Per questo mi è sembrato un errore - tanto da portare alla defezione di Emergency - aprire in questo contesto un dialogo tra la Tavola della Pace e il Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate italiane. Mai come oggi, tanto più con una crisi economica che chiede il conto all'Europa delle banche e degli speculatori, è necessario tenere in vita un punto di vista "altro" da parte del movimento per la pace. Ma la vera marcia, come hanno detto, questa volta giustamente, gli organizzatori nella tappa finale della rocca di Assisi, comincia adesso. Non solo perché in Afghanistan, in Palestina, in tanti paesi dell'Africa si continua a morire di guerra e di fame. Perché è adesso che affrontiamo una crisi economica senza precedenti,che oggi colpisce la Grecia, la Spagna e il Portogallo ma che inevitabilmente chiede il conto a tutta l'Europa. L'Europa ha due strade davanti l'una opposta all'altra: o rimanere l'Europa delle banche, degli speculatori, dei patti di stabilità dettati dalla grande finanza o diventare invece l'Europa dei popoli, che taglia le spese militari, difende salari e pensioni invece della rendita e dei pescecani della finanza. L'Europa deve decidere se continuare ad essere corresponsabile della guerra in Afghanistan o aprire un nuovo corso attraverso il ritiro delle proprie truppe. Il prossimo anno la marcia Perugia Assisi compierà 50 anni. Sarà l'occasione per tornare all'impegno originario di Aldo Capitini, il grande maestro italiano della nonviolenza, che chiedeva lavoro invece di bombe, ospedali invece di truppe, scuole invece di carri armati. Quella vocazione è più che mai attuale in un mondo che si sta invece abituando alla guerra militare, economica e finanziaria contro l'umanità. La marcia Perugia Assisi è in primo luogo una speranza che va nutrita ogni giorno di piccole e grandi conquiste di civiltà e che ricorda a tutti noi che solo la pace è un buon investimento. Condividi