di Vincenzo Vita

 

«Viva la radio», canta Euge­nio Finardi e come non con­cor­dare. Il mezzo «caldo» per eccel­lenza, novan­tenne dallo scorso 6 otto­bre, asso­mi­glia al per­so­nag­gio del film («Il curioso caso di Ben­ja­min But­ton» con Brad Pitt e Cate Blan­chett), che via via rin­gio­va­ni­sce: sem­brava rele­gato alle can­tine dei rigat­tieri, sop­pian­tato dai luc­ci­chii pre­po­tenti quanto effi­meri della tele­vi­sione gene­ra­li­sta, men­tre è il vero mutante dei media.

La radio è il tratto di con­giun­zione tra l’era del broa­d­ca­sting e il nuovo Impero della rete. Snella, dut­tile, tra­sfor­mi­sta (nel senso della scena tea­trale, ovvia­mente), capace di depo­si­tarsi senza danni nel e sul web, natu­ral­mente cross– mediale. E poi, la voce. Niente tocca di più i sensi come la parola, che fa imma­gi­nare – con un rea­li­smo fan­ta­stico– il mondo al di qua e al di là della bana­lità dei corpi. Straor­di­na­ria, ad esem­pio, la fic­tion radio­fo­nica, che resti­tui­sce un diritto ai non vedenti e fa vedere ciò che non vedono a tutti gli altri.

Le news, poi, sono state l’anticipazione della rei­te­ra­zione delle noti­zie tipica della sta­gione digi­tale, in cui il vec­chio palin­se­sto ana­lo­gico viene tra­guar­dato dalla velo­cità. Nume­rosi spunti sono offerti dal bel volume (2013, Carocci) «La radio in Ita­lia» curato da Tiziano Bonini, che mette a fuoco pro­prio l’integrazione con i social net­work, i muta­menti dell’audience, le tra­sfor­ma­zioni dei generi dopo il pri­mato della radio come medium musi­cale. E va sot­to­li­neato il ruolo ori­gi­nale e non omo­lo­gato che hanno avuto le emit­tenti pri­vate, vera e pro­pria rivo­lu­zione cul­tu­rale che con­tri­buì all’affrancamento della cul­tura di massa dai suoi clas­sici ste­reo­tipi piccolo-borghesi e per­be­ni­sti. Non a caso, l’ascolto tiene. Ogni giorno 35 milioni di per­sone si sin­to­niz­zano. Anche se la pub­bli­cità è calata negli ultimi anni del 30%. Par­liamo dell’insieme, pub­blico e pri­vato. La crisi libe­ri­sta, del resto, è incle­mente con i deboli.

Ecco, di fronte al tesoro poten­ziale che custo­di­sce, la Rai – rec­tius, i suoi ver­tici — sem­bra non curar­sene. Anzi. Radio Rai vive un col­pe­vole declino, con­trad­dit­to­rio rispetto alle oppor­tu­nità che avrebbe. Tant’è che lo scorso 3 dicem­bre, a un mese esatto dal riu­sci­tis­simo scio­pero, i comi­tati di reda­zione hanno tenuto una signi­fi­ca­tiva ini­zia­tiva presso la Stampa estera a Roma, insieme all’ Usi­gRai e a rap­pre­sen­tati di varie radio pub­bli­che euro­pee, non­ché al pre­si­dente della Com­mis­sione par­la­men­tare di vigi­lanza Fico. I dati sono disar­manti: nove edi­zioni dei gior­nali radio tagliate: trenta minuti del Gr2 e dieci del Gr3. Nes­sun piano di rilan­cio, scarso mar­ke­ting, disin­te­resse stra­te­gico.

Ora che la radio digi­tale è entrata nell’epoca della matu­rità, una visione insieme cul­tu­rale e tec­nica sarebbe dove­rosa. Per­ché si pri­vi­le­giano i discu­ti­bili piani sulla tele­vi­sione? Eppure, la radio non è mai stata descritta né come una cat­tiva mae­stra, né come un nir­vana, né come trash.

Suv­via, ci si ripensi. E viene in soc­corso un’ipotesi lun­ga­mente ela­bo­rata negli anni pas­sati, quando la riforma sem­brava immi­nente: vale a dire la tra­sfor­ma­zione in auto­noma azienda della Radio, all’interno di una Rai-Holding immersa nella società infor­ma­zio­nale. Solo così la radio pub­blica vivrebbe un «nuovo ini­zio», supe­rando l’ingenerosa col­lo­ca­zione di oggi, che la vede come la parente povera, senza nep­pure l’epica de «La cugina Bette» di Bal­zac. Povera e basta. E dire che la radio potrebbe essere per la vita pub­blica il più gran­dioso mezzo di comu­ni­ca­zione, scri­veva Bre­cht. Con la sua leg­ge­rezza calviniana.

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