di Leonardo Caponi

 

PERUGIA - E’ stato ed è purtroppo rimasto uno dei tristi primati dell’Umbria. La questione non è il posto preciso nella graduatoria. Conta la “fascia” (alta, bassa, intermedia) e l’Umbria è nella fascia “alta”. Ma quello che rende e ha sempre reso incongruo e meno accettabile in questa regione il numero degli incidenti e dei morti sul lavoro è il suo raffronto con la cultura progressista, i livelli di civiltà generale e il rispetto e la considerazione di cui il lavoro gode nell’opinione comune. Nel 2013 ci sono stati in Umbria 28 morti, quasi 13mila infortunati, circa 1500 denunce di malattie professionali e 11 decessi accertati a seguito di esse. Un vero e proprio bollettino di guerra. E tutto lascia intendere che, dietro questi dati "ufficiali", la realtà, come accade in tutta Italia,  sia peggiore, soprattutto in materia di lavoratori extracomunitari.

   La lente delle statistiche ufficiali non “rende” i drammi, personali e familiari, di chi ne è vittima o coinvolto. L’ultimo incidente occorso al titolare di una ditta appaltatrice delle Acciaierie di Terni, la scorsa settimana, è nello stesso tempo sconvolgente e raccapricciante: un figlio che inavvertitamente, manovrando un attrezzo di lavoro, decapita il padre. I rapporti ufficiali segnalano una vittima, ma a morire davanti a quel muro di cinta sono stati in realtà anche il figlio e tutti i loro congiunti. Fatalità o, come è stato scritto, tragico fraintendimento tra due persone? Si, forse anche questo; ma ha fatto bene il Consiglio di fabbrica del grande stabilimento a richiamare, di fronte all’impressionante susseguirsi di incidenti di questo tipo, le condizioni iugulatorie cui le piccole ditte devono sottostare per accaparrarsi un appalto, bandito all’insegna del “massimo ribasso”. Così come ha fatto bene a lanciare un allarme sui possibili effetti che l’annunciato piano di riduzione dei costi aziendali potrà avere anche sulla prevenzione e la sicurezza dell’ambiente di  lavoro che, in quanto spese non produttive, saranno le prime ad essere tagliate.

    Si è a lungo discusso, in passato, sul “modello sociale” umbro e sulla possibile sua attinenza col fenomeno di quelle che erano chiamate le “morti bianche”. E’ stata una contraddizione forse tipica di questa regione l’aver fatto convivere una cultura giuslavorista molto avanzata (adottata e praticata soprattutto nei programmi delle istituzioni locali) con una base produttiva caratterizzata da salari inferiori alla media nazionale e da condizioni normative più flessibili di altre parti d’Italia. A una diffusa scarsa qualità delle condizioni di lavoro, si sono contrapposte significative sperimentazioni nel campo della bonifica degli ambienti di fabbrica e della lotta alle malattie professionali. Alcune di esse, condotte da istituti regionali in collaborazione con quelli universitari, sono rimaste, a loro modo, memorabili, anche  per il carattere innovativo nel panorama generale. Oggi questo fervore culturale pare del tutto sopito. Ed è in questo modo che regna il paradosso di questi ultimi anni di crisi nei quali ad una rilevante (e drammatica) riduzione del volume del lavoro, corrisponde, in Umbria ed in Italia, una stabilità del numero dei morti, degli infortunati e degli “ammalati”. C’è poco da fare: le tutele sono calate e l’”attenzione” generale verso questo tema è vistosamente scemata. La questione è derubricata dal dibattito politico. C’era da aspettarsi qualcosa di diverso? Sono stati gli anni del dominio assoluto del mercato e dell’umiliazione del lavoro. E’ la denuncia che ripete, a ogni piè sospinto, Papa Francesco e a cui si è riferito quando, rivolto proprio agli operai di Terni, ha detto che “con il lavoro non si scherza”. Ecco, se non si riparte da qui, dalla rivalutazione del lavoro e dalla tutela della sua dignità, ogni compianto per le vittime che genera, diventa una ipocrisia. E la strage rimane infinita.

 

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