di Raniero La Valle.

Quando martedì scorso 5 giugno sono andato al Senato per ascoltare il discorso programmatico di Conte (che c’era davvero, non era inesistente come lo schernivano commentatori e avversari), ho incontrato nella grande sala che al Senato funge da Transatlantico un vecchio democristiano che, desolato, mi ha detto: “Abbiamo distrutto tutto”, per dire che la classe politica della vecchia DC e del vecchio PCI (per non parlare degli altri) era stata capace di distruggere tutto quello che si era costruito nella cosiddetta prima Repubblica, così da lasciare ora il potere a quella nuova maggioranza che egli deprecava. 
Questa lucida ma infeconda disperazione di un autorevole parlamentare del tempo mi ha fatto ricordare una lungimirante invettiva di Fanfani, che era un segretario della DC prepotente ma molto intelligente. Quanto alla prepotenza, ricordo che quando stava a piazza del Gesù egli era solito chiamare il vicesegretario Mariano Rumor, che lavorava nella stanza accanto, col campanello, come allora si faceva con i camerieri. Molto più tardi, quando era presidente del Senato, siccome io mi prendevo un po’ di tempo per spiegare come nel Vangelo Gesù non scrivesse sulla pietra ma col dito sulla sabbia per significare la precarietà della legge che condannava a morte l’adultera, e che quindi anche noi potevamo cambiare la legislazione che infieriva sulle donne per l’aborto, si appellò al regolamento per richiamarmi al tempo scaduto e togliermi la parola, cosa che allora non si faceva mai. Ma, quanto alla intelligenza, egli capì subito nel 1974 che il voto popolare contro l’abrogazione della legge sul divorzio segnava la fine della DC come regime, e rientrando a piazza Sturzo dove lo attendeva una piccola folla ostile, se ne uscì nella profetica invettiva: “Rimpiangerete la Democrazia Cristiana”. 
Tutto poi è puntualmente avvenuto. I democristiani hanno distrutto la DC con la sua mediazione interclassista, e i comunisti hanno distrutto il PCI e con esso il pensiero stesso capace di pensare nel tempo forme di sinistra. Ma col pretesto che le ideologie erano finite, nessuno ne ha elaborato di nuove; e così non c’è stato spazio altro che per il rimpianto. Il Partito Democratico, nelle sue successiva variazioni, è stato questo rimpianto, perché ha creduto di poter continuare la DC senza un pensare cristiano, e di rifare il PCI senza pensare il dolore e l’ingiustizia di classe. Due ceti dirigenti, nessuna cultura. E così anche i democratici, come i loro antecessori, hanno distrutto il loro partito; eppure serviva. Adesso, fatto il disastro, i nuovi dirigenti non riescono a dire altro se non che le ragioni per cui il PD fu fondato sono più che mai valide, e perciò si deve ricominciare come prima: e ciò allo scopo di comporre gli interessi diversi, al modo del vecchio interclassismo, e prendere voti a destra ed a manca. Ma come possono farlo se alla Camera vanno su tutte le furie quando sentono parlare del popolo, e hanno alle spalle un PD renziano che non ha fatto che mettersi contro le parti sociali, mortificare i sindacati, e affermare la autodichia e il solipsismo del proprio volere? Troppo tardi per rimediare, meglio andare all’estero a raccontare come si fa.
E ora tutti irridono all’ibridismo della nuova maggioranza, evocano Frankenstein, dicono che c’è contraddizione come tra il diavolo e l’acqua santa e che il “contratto” ha unito due contrari: la paura che chiede sicurezza e il sogno che chiede pane diritti e vita. Ma l’Italia di oggi è proprio l’unione di questi due contrari. C’è il Nord produttivo, e al di là di esso l’Italia che ce l’ha fatta, che ha paura di perdere quel tanto o poco che è riuscita a conseguire, e chiede rassicurazione e difesa; e c’è un Sud dell’eterna questione meridionale, e con esso l’Italia povera e derelitta che nonostante tutto coltiva un sogno, tanto sconfitto finora da apparire ingenuo, il sogno che se ne può uscire, che si può fare giustizia, che il popolo infine avrà ragione. 
Non è facile che si riesca a farcela, perché tutto il sistema è sul piede di guerra (la NATO ha già protestato) e tutto il vecchio che ha perduto il potere vuole distruggere il sogno. Ma anche l’Italia della paura ha paura del sogno; essa, che al di là delle apparenze è contigua e alleata alle minoranze sconfitte, può finire per trovare più rassicurante rompere col sogno e ricadere nelle braccia dei vecchi poteri. Perciò i Cinque Stelle sono in pericolo, forse prossima vittima sacrificale; c’è un’aria di unanimità violenta contro di loro. Mai in vent’anni di vita parlamentare avevo assistito a un dibattito sulla fiducia così scortese e carico di astio e di violenza. Questo mi sembra, nel profondo, il dramma culturale, prima che politico, che stiamo vivendo. 
Paura e sogno, è vero, sono in tensione se non in contrasto tra loro. Ma questa è l’Italia, anzi questa è la vita. Per tutti, sempre, è così. La speranza, e il cimento, personale e politico, sono che il sogno vinca sulla paura, e non solo uno specifico sogno, ma si salvi la possibilità stessa di sognare, di sapere e volere che il mondo “inequo”, come lo chiama papa Francesco, si possa cambiare. 

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