Vincenzo Vita

 

 

Qual­cosa si muove, dopo anni di ten­ta­tivi nau­fra­gati e forse nep­pure dav­vero con­vinti. Tanto in tele­vi­sione basta andarci. Ecco quello che conta, almeno per una parte cospi­cua del ceto poli­tico. Fu que­sta la “filo­so­fia” pre­va­lente nella seconda metà degli anni novanta, quando il pro­getto di rior­dino del ser­vi­zio pub­blico del cen­tro­si­ni­stra fu boi­cot­tato insieme alla legge sul con­flitto di inte­ressi. Pre­valse la grave sot­to­va­lu­ta­zione della por­tata del sistema dei media, pros­simo a diven­tare – al con­tra­rio — esso stesso sog­getto poli­tico, stra­po­tere tra i poteri.

Con il ber­lu­sco­ni­smo impe­rante il ser­vi­zio pub­blico andava cir­co­scritto e sospinto al di fuori dei trend dello svi­luppo inte­grato (il matri­mo­nio con tele­foni e rete), lascian­dolo vol­teg­giare nel limbo della logora offerta gene­ra­li­sta. Il “duo­po­lio” comin­ciava a pren­dere i volti di Sky e di Media­set, con la Rai sospinta in serie B. Pro­prio la vicenda più recente, vale a dire il ten­ta­tivo di con­qui­sta di Rai­Way da parte di EI Towers (e chissà come andrà a finire) sem­bra l’urlo di avvio della guerra finale. Dove pro­prio il ser­vi­zio pub­blico si gioca la par­tita della vita. Ecco, allora, per­ché è impor­tante ripren­dere final­mente il cam­mino di una «riforma di struttura».

Il governo ha annun­ciato la pre­sen­ta­zione di un suo pro­getto, e l’ha detto più di una volta. Siamo in attesa. Altri arti­co­lati sono stati nel frat­tempo depo­si­tati: Anzaldi (che riprende la pro­po­sta dell’allora Mini­stro delle comu­ni­ca­zioni Gen­ti­loni), Maraz­ziti: per stare nell’area della mag­gio­ranza. E pro­prio ieri, per pas­sare alle oppo­si­zioni, è stata divul­gata la pro­po­sta del Movi­mento 5Stelle. Inte­res­sante, per­ché rende assai rigo­rosi i cri­teri di scelta dei con­si­glieri di ammi­ni­stra­zione, sot­to­po­sti a una valu­ta­zione di merito strin­gente. Anche se appare curioso l’affidamento di un atto tanto deli­cato all’Autorità per le garan­zie nelle comu­ni­ca­zioni, che certo non si è rive­lata in quest’ultimo scor­cio di tempo cam­pione di atti­vità e di soler­zia. Anzi.
Comun­que, lo sforzo di Roberto Fico e dei col­le­ghi ha diversi aspetti utili, da tenere in conto nell’immaginare una discus­sione aperta e senza preconcetti.

A tal fine, un bel gruppo di par­la­men­tari (Nicola Fra­to­ianni e Pippo Civati, Arturo Scotto, San­dra Zampa, Luca Pasto­rino e Anna­lisa Pan­na­rale) ha ela­bo­rato un’ipotesi nor­ma­tiva con­vin­cente, non­ché inno­va­tiva nel metodo. È il frutto, infatti, di un lungo e par­te­ci­pato con­fronto istruito dal «MoveOn​-Ita​lia​.La Rai ai cit­ta­dini», movi­mento nato qual­che anno fa sull’onda dell’esperienza venuta dagli Stati Uniti. I punti essen­ziali dell’articolato riguar­dano in primo luogo la fun­zione di “bene comune” attri­buita al ser­vi­zio pub­blico, il cui ruolo deve aumen­tare e non dimi­nuire nell’era digi­tale, per evi­tare ulte­riori divi­sioni cul­tu­rali e sociali.

La Rai può tro­vare pro­spet­tive e stra­te­gie ade­guate se diviene lo stru­mento per la dif­fu­sione gra­tuita e gene­rale di tutte le piat­ta­forme tec­no­lo­gi­che. Inol­tre, il con­si­glio di ammi­ni­stra­zione è eletto da un orga­ni­smo indi­pen­dente e rap­pre­sen­ta­tivo del mondo della società civile: il Con­si­glio per le Garan­zie del ser­vi­zio pub­blico, for­mato solo in parte ridotta da espres­sioni diret­ta­mente poli­ti­che (6 mem­bri su 21 indi­cati dal Parlamento).

Insomma, la scelta di libe­rare la Rai dall’antica ser­vitù della lot­tiz­za­zione passa dalla teo­ria alla prassi. A breve scade il con­si­glio della Rai. Per cor­te­sia, la legge Gasparri que­sta volta no.

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