Vincenzo Vita

 

Attorno alla que­stione Rai – nean­che troppo oscuro oggetto del desi­de­rio — si sta gio­cando una par­tita che supera di gran lunga i con­fini dell’azienda. Una prova di forza, ad alto con­te­nuto sim­bo­lico, decisa dal governo. Del resto, ora il pre­si­dente del con­si­glio è sospinto dai venti degli dei e il dibat­tito (non certo solo sulla Rai) sta assu­mendo le sem­bianze del pen­siero unico. Atten­zione, però, a non stra­fare. I pro­mo­tori dello scio­pero, vale a dire le orga­niz­za­zioni sin­da­cali e non solo la com­po­nente gior­na­li­stica Usi­grai, saranno pure «brutti, spor­chi e cat­tivi», come un certo neo­con­for­mi­smo vuole dipin­gerli, ma pon­gono pro­blemi seri. Pesa la deci­sione della Com­mis­sione di vigi­lanza sugli scio­peri, certo. Da capire.

Ma la grande parte dei lavo­ra­tori della Rai gua­da­gna cifre assai mode­ste. I pri­vi­le­giati, dun­que, sono una mino­ranza, peral­tro ascri­vi­bile alle logi­che del divi­smo, dell’ossessiva ricerca dell’ascolto, al con­nu­bio tra pro­grammi e pub­bli­cità. Ciò non toglie che la qua­re­sima è indi­spen­sa­bile, dopo anni di spre­chi e di spese assurdi, di assurdi appalti dispen­diosi: altra fac­cia di quel «duo­po­lio» Rai-Mediaset, che per anni è stato l’approdo e l’isola felice del sistema politico-clientelare italiano.

All’origine dei mali della Rai sta pro­prio quel tempo, in cui la con­cor­renza (appa­rente più che reale) faceva lie­vi­tare i costi, creando un indotto gra­di­tis­simo a pezzi di par­tito, a lobby fame­li­che, ai salotti della «grande bel­lezza». E chi era con­tro era, per ciò stesso, un ere­tico mar­gi­nale. Com­plice il con­flitto di inte­ressi sem­pre deter­mi­nante, ogni ten­ta­tivo di cam­bia­mento è stato affossato.

Il rosa­rio delle leggi affos­sate è lungo. Ben venga, allora, un vento inno­va­tore. Con qual­che punto fermo. Innan­zi­tutto, il diritto di scio­pero è sacro­santo e suscita un retro­gu­sto amaro assi­stere alla gara di que­ste ore a mostrarsi fede­lis­simi al «buon governo». L’eccesso di zelo è sem­pre sospetto. Inol­tre, va ricor­dato – non rimosso — il punto da cui ori­gina la ver­tenza. Con un atto di dub­bia costi­tu­zio­na­lità, come ben sot­to­li­neato dalla memo­ria pre­pa­rata al riguardo da Ales­san­dro Pace, il taglio delle risorse è stato inse­rito in un decreto legge, il n.66 sull’Irpef. Sui prin­cipi non si tran­sige. Anche un ese­cu­tivo gui­dato da Lenin e com­po­sto da Mao, Ho Chi Minh e Rosa Luxem­burg non l’avrebbe scam­pata. Se, poi, l’avesse fatto Ber­lu­sconi, che avreb­bero detto e scritto tanti commentatori?

Per­ché non è stato pro­po­sto un dise­gno di legge cen­trato su tre punti: indi­pen­denza della Rai dai par­titi e dai poteri esterni, rego­la­zione del con­flitto di inte­ressi, abro­ga­zione della legge Gasparri che san­ti­ficò il duopolio?

Il governo gode di un enorme favore popo­lare e di una altret­tanto estesa sim­pa­tia media­tica. Dav­vero sarebbe augu­ra­bile che l’incidente si chiu­desse, ma con l’individuazione di un impe­gna­tivo tavolo di con­fronto tra governo, sin­da­cati e azienda.

Il sot­to­se­gre­ta­rio Gia­co­melli ha fatto final­mente un’apertura su uno dei nodi qua­li­fi­canti della ver­tenza: la con­ferma anti­ci­pata del rin­novo della «Con­ven­zione Stato — Rai». Solo così, tra l’altro, si può imma­gi­nare una stra­te­gia, ivi com­presa la que­stione di Rai-Way, che oggi – in assenza di un piano glo­bale — rischia di essere una mera e sui­cida ope­ra­zione di cassa. Altro ci vuole, però. Una visione. Negli anni Ses­santa in Gran Bre­ta­gna fu isti­tuita una com­mis­sione pre­sie­duta da Harry Pil­king­ton per rifor­mare la Bbc. Non si può fare lo stesso in Ita­lia? O è in corso una prova musco­lare preventiva?

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