di Vincenzo Vita

 

«Mistero della fede», recita la litur­gia della Messa cat­to­lica e, senza essere bla­sfemi, si potrebbe repli­care la mede­sima evo­ca­zione stando con i piedi nei bas­si­fondi bla­sfemi della tele­vi­sione.
Il rife­ri­mento è alla biz­zarra vicenda del canone di abbo­na­mento della Rai.

A poche set­ti­mane dalla fine dell’anno, ancora non è chiaro cosa dovranno fare i cittadini-utenti: pagare –magari con qual­che ritocco– la vec­chia tassa sul pos­sesso dell’apparecchio radio o tele­vi­sivo; ovvero atten­dere qual­che bella (?) novella da parte del sot­to­se­gre­ta­rio Gia­co­melli, che Il Tir­reno ha per­sino chia­mato «il mago di Prato».

Le ripe­tute anti­ci­pa­zioni con­te­nute in nume­rose inter­vi­ste – spicca quella assai arti­co­lata pub­bli­cata dal pun­tuale men­sile Prima Comu­ni­ca­zione — vanno nel senso della revi­sione pro­fonda della stessa filo­so­fia del canone.

Ma come? Qui casca l’asino.

Se è vero ciò che si legge nelle anti­ci­pa­zioni, si trat­te­rebbe di un fuoco fatuo. Infatti, l’ipotesi in corso di pre­pa­ra­zione (per quando, il 2015 è alle porte) sta­bi­li­rebbe diverse fasce di paga­mento, a seconda dei tetti Isee (gli indi­ca­tori di ric­chezza), tra trenta ed ottanta euro – cifra quest’ultima assurta ad onto­lo­gia del governo Renzi. A parte le esen­zioni per i set­tori più deboli.

I cal­coli por­te­reb­bero a egua­gliare e forse a supe­rare — si sostiene — l’introito attuale (1,7 md di euro, pur con un’evasione di circa il 27%). È giu­sto cam­biare la fisio­lo­gia di una tassa che risale al Regio decreto del 1938, ma andando fino in fondo.

Già negli anni del cen­tro­si­ni­stra dell’epoca 1996/2001 vi fu un ten­ta­tivo serio di cam­bia­mento. L’idea era sem­plice e inno­va­tiva: inse­rire il canone nella dichia­ra­zione dei red­diti, pro­por­zio­nan­dolo alle pos­si­bi­lità di spesa.

A fronte di una con­si­de­re­vole quota esclusa dal paga­mento, si otter­rebbe un introito ben mag­giore della caba­li­stica soglia degli ottanta euro. Per chi ha tante abi­ta­zioni e un red­dito alto, per­ché non alzare con­si­de­re­vol­mente la quota dovuta?

E sì, visto che per una Rai debi­ta­mente rifon­data come effet­tivo ser­vi­zio pub­blico le risorse ser­vi­reb­bero per svol­gere le fun­zioni essen­ziali: pro­du­zione di film e audio­vi­sivi ita­liani ed euro­pei; radi­ca­mento nel ter­ri­to­rio, illu­mi­na­zione delle peri­fe­rie geo­gra­fi­che e sociali – come ben ha detto Arti­colo 21 nel recente semi­na­rio ad Assisi; ri-alfabetizzazione degli ita­liani nell’era digi­tale. Sono temi discussi pure nell’ultima straor­di­na­ria edi­zione di «Con­tro­ma­fie», pro­mossa da Libera di don Ciotti.

Non a caso. La Rai ritorna al suo ruolo auten­tico se risco­pre la fun­zione etica e par­te­ci­pa­tiva della comu­ni­ca­zione intesa come bene comune.

Per la cro­naca, il pro­getto degli anni novanta si arenò per le dif­fi­coltà tec­ni­che emerse nella fase ope­ra­tiva. Ma in quella ter­ri­bile sta­gione accadde anche di peg­gio: il dise­gno di legge n.1138 di radi­cale riforma della Rai fu insab­biato e il con­flitto di inte­ressi pure. Tra­ge­die note e pec­cati irri­me­dia­bili. Ora, però, è obbli­ga­to­rio osare un po’, agendo una vera revi­sione del modello finan­zia­rio che governa il sistema dei media. Dai canoni per le fre­quenze, incre­di­bil­mente abbas­sati per Rai e Media­set; alla pub­bli­cità; ai carat­teri e alla misura dell’esangue Fondo dell’editoria; al soste­gno dell’agonizzante emit­tenza locale.

Insomma, un decreto sul canone non fa pri­ma­vera. Una tes­sera di un mosaico miste­rioso. Non è che la famosa guerra dei trent’anni fini­sce con la Rai in serie B, ridi­men­sio­nata senza una riforma? Il sistema è in evo­lu­zione e l’Italia sta diven­tando un’espressione geografica.

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