Vincenzo Vita

 

«Un passo indie­tro e due avanti», si potrebbe dire della con­clu­sione della prima fase della vicenda del Tea­tro Valle di Roma, per rove­sciare (lo fece anche Ber­ti­notti) la pur abu­sata cita­zione da Lenin. L’occupazione si è con­clusa e il fol­tis­simo gruppo di intel­let­tuali e arti­sti che entra­rono nella pre­sti­giosa sala il 14 giu­gno del 2011, all’indomani delle vit­to­riose prove refe­ren­da­rie sull’acqua pub­blica e sul nucleare, è ora fuori. Un passo indie­tro. Ma la pra­tica cul­tu­rale dei beni comuni ha fatto almeno due passi avanti. Dopo la chiu­sura dell’Ente tea­trale ita­liano, da cui dipen­deva il Valle, il più antico pal­co­sce­nico della città capi­tale ancora in atti­vità, si è chiusa la strada a pos­si­bili avven­tu­rose pri­va­tiz­za­zioni. L’occupazione “sui gene­ris” non può essere ascritta a un feno­meno di devianza, quanto piut­to­sto alla difesa di un gio­iello della comu­nità nazio­nale e inter­na­zio­nale: visto il suc­cesso della mobi­li­ta­zione fatta di tea­tro, di musica, di agorà aperta, cui hanno con­tri­buito cen­ti­naia di espe­rienze ita­liane ed estere.

È esi­stito un altro luogo negli anni recenti dove il tea­tro ha ri-conquistato pla­tee attive e com­par­te­cipi dell’attività, un pub­blico colto e fide­liz­zato, che gli odierni player della comu­ni­ca­zione si sognano di notte? Anzi. Il Valle è diven­tato un mar­chio for­tis­simo, forte e rico­no­sci­bile, come furono — su ver­santi diversi — il bat­ti­strada della nuova idea di tea­tro pub­blico, il Pic­colo di Gior­gio Stre­hler, o La Comune di Dario Fo. Vale a dire strut­ture meta– tea­trali, occa­sioni di affran­ca­mento dell’immaginario col­let­tivo. La costru­zione della Fon­da­zione offre l’opportunità al Comune di Roma e al Tea­tro sta­bile di aprire un con­fronto: deci­sivo per risol­vere in bonis la que­stione e uti­lis­simo per get­tare le basi di una nuova idea di inter­vento pub­blico. Ecco l’altro passo avanti. Il Pub­blico non si riduce a essere una for­mula giu­ri­dica, invec­chiata come lo è a mag­gior ragione il richiamo ideo­lo­gico al mer­cato. Serve, senza per­dite di tempo, una gene­rale ri-fondazione di un sistema oggi ai mar­gini del vil­lag­gio glo­bale. Ci voleva l’ambasciatore fran­cese Le Roy a ricor­dare su il Fatto che la cul­tura in Ita­lia arriva sì e no allo 0,2% del Pil? E allora, evviva l’esperienza del Tea­tro Valle, che ha ridato un po’ di splen­dore alla pas­sione per il teatro.

Oppor­tuna è stata la scelta sof­ferta di lasciare i locali e ricon­se­gnare le chiavi. Aper­tura non stru­men­tale hanno mostrato l’assessora Mari­nelli e il pre­si­dente dell’Argentina Sini­baldi. Final­mente inter­lo­cu­tori aperti. Ora, però, si passi ad atti reali, coin­vol­gendo nella ride­fi­ni­zione della mis­sione e dell’assetto del Tea­tro di Roma la ricca espe­rienza del movi­mento. Un’avanguardia. È stato evi­tato un epi­logo avvi­lente per tutti. Vedere per cre­dere. È lecito atten­dersi, a que­sto punto, un secondo tempo, dav­vero crea­tivo e par­te­ci­pato, che tragga ali­mento dai tre anni tra­scorsi nella spe­ri­men­ta­zione di un modello avan­zato di gestione, non ren­den­doli vani.

È un capi­tolo fon­da­men­tale nella scrit­tura di un mani­fe­sto cul­tu­rale per la sini­stra, com­pito che attende l’impegno delle (certo molte) per­sone di buona volontà. Per­ché la Cul­tura è oggi più che mai la Poli­tica. E sono tanti coloro che non si vogliono arren­dere al pen­siero unico o all’omologazione. Il ber­lu­sco­ni­smo, pur­troppo, è soprav­vis­suto alla para­bola poli­tica del patron di Arcore e ha fatto pro­se­liti. Il Valle, però, è l’attimo fug­gente: gra­zie Robin Williams.

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