di Maria Pellegrini.

«Un buon oratore deve possedere conoscenze estese in diversi ambiti, senza le quali si ha una vuota e ridicola produzione di parole. […] Il discorso deve infatti sbocciare e scaturire da una padronanza degli argomenti; se il tema non è stato appreso e assimilato bene dall’oratore, suonerà come una sterile e infantile esposizione». Così scrive Cicerone nel “De oratore” elargendo poi molti consigli, fra i quali quanto sia importante «usare buon senso e accuratezza nella scelta degli argomenti da sviluppare».

Sarebbe opportuno che il vicepremier Luigi Di Maio facesse tesoro dei consigli di Cicerone soprattutto sull’uso del buon senso. Per affrontare le critiche degli oppositori e anche i contrasti interni alla coalizione di governo, non dovrebbe incitare i suoi alla compattezza della Testuggine romana quasi fosse un capo militare di fronte a un attacco nemico. Questo il suo appello: «Siamo sotto attacco, è vero, ma siamo seduti dalla parte giusta della Storia e se avanzeremo insieme compatti anche la vittoria di questa battaglia sarà nostra. Ma dobbiamo essere compatti. Molto compatti. Fusi insieme. Come lo era la testuggine romana che veniva usata in particolare durante gli assedi. È bene infatti avere molto chiaro che dalla compattezza della testuggine del Movimento dipende non solo il futuro del governo, ma anche quello del nostro Paese».

Oltre alla presunzione di pronunciare con molta enfasi di essere dalla parte giusta della Storia, giudizio per ora prematuro, il suo richiamo alla testuggine romana ha generato una serie di articoli e scatenato l’ironia dei social che lo hanno criticato per aver copiato da Wikipedia le parole per spiegare che cosa fosse questa antica formazione tattica. Ciò che ha reso poco persuasivo il suo appello non è tanto il ricorso all’enciclopedia on line - tutti noi ne facciamo uso e vi ricorriamo per una veloce consultazione, o una momentanea dimenticanza - quanto l’inopportunità di certe espressioni di tipo guerresco che descrivono gli oppositori politici come nemici da combattere indossando e sopraelevando scudi, quasi dovessero difendersi dal lancio di frecce e sassi. L’ammonimento ad avanzare compatti rafforza il concetto prefigurando una marcia di una soldatesca pronta all’attacco in difesa di una fortezza. Una metafora – si dirà in sua difesa – ma fuori luogo, perché per affermare la bontà dei propri programmi politici si deve ricorre al confronto, alla dialettica, non a scudi e a schieramento di soldati. Anche il premier Giuseppe Conte sembra essere contagiato dalla sindrome di Di Maio avendo dichiarato giorni fa di proseguire il cammino intrapreso come «un carro armato». Evocare questo clima bellico suscita sconcerto più che riso o indignazione. Viene in mente un detto latino: «si parva licet componere magnis», «se è lecito paragonare le cose piccole alle grandi». La frase si dice quando si vuole far notare l’accostamento o il paragone con cose, fatti, argomenti molto diversi tra loro per importanza. La troviamo in Virgilio (IV libro delle “Georgiche”, v. 176): quasi in tono di scusa il poeta si rivolge al lettore per aver paragonato il lavoro intenso delle piccole api a quello dei giganteschi Ciclopi.

Negli ultimi decenni serie televisive, romanzi storici, produzioni cinematografiche hanno contribuito a risvegliare nel grande pubblico interesse per la storia romana, per l’organizzazione dell’esercito, strumento militare formidabile, per il suo equipaggiamento, per le tattiche di combattimento e le macchine da guerra. Una certa conoscenza sull’armamento dei romani è giunta a noi attraverso l’epigrafia e l’iconografia: iscrizioni e bassorilievi su lapidi, monete, mosaici, monumenti celebrativi hanno dato testimonianza di scudi, corazze, elmi, e di tutte quelle formazioni tattiche usate durante le guerre. Un supporto è stato dato dall’archeologia a partire dal secolo XIX e dai primi del XX. Una serie di ritrovamenti ha consentito di delineare con maggior precisione ciò che era conosciuto soltanto attraverso l’iconografia.

Sappiamo con certezza che la “Testuggine”, come formazione tattica, era in uso corrente al tempo di Traiano, infatti ne abbiamo una nitida rappresentazione in un riquadro della sua Colonna (vedi immagine sopra), nel quale è scolpito un gruppo di legionari che assedia una fortificazione dei Daci proteggendosi con gli scudi dal lancio di oggetti scagliati dai difensori delle mura.

La testuggine è quindi una disposizione di battaglia assunta negli assalti contro le opere fortificate. I soldati dell’antico esercito avanzavano strettamente serrati fra loro, tenendo gli scudi sollevati all’altezza della testa, in modo da formare un tetto per consentire l’avvicinamento delle truppe d’assalto al riparo da lancio di dardi o sassi.

Il termine serviva anche a indicare una macchina da guerra costituita da una specie di tettoia mobile munita di ruote, che proteggeva l’ariete (macchina da guerra usata per sfondare i muri della città da assediare) e i guerrieri che lo manovravano.

Cassio Dione è stato il primo storico a descrivere dettagliatamente come era formata la Testuggine e come agiva in battaglia. Siamo nel 35 a. C. e il riferimento è alla spedizione di Marco Antonio contro i Parti. Si trova facilmente anche in rete inserendo nei motori di ricerca la parola Testuggine.

Da Cassio Dione, “Storia Romana”, Libro XLIX, cap.30:

«Descriverò adesso la testuggine e come essa si forma. Le bestie da soma, i soldati armati alla leggera e i cavalieri sono collocati nel mezzo dello schieramento; una parte degli opliti, armati di scudi oblunghi, cilindrici e cavi, si dispongono all’ intorno sui limiti estremi, a forma di quadrato e rivolti verso l’esterno protendendo in avanti gli scudi coprono tutta la massa. Gli altri, cioè quelli che hanno gli scudi larghi e piatti, si raccolgono nel mezzo, tutti stretti tra loro e alzando gli scudi a difesa propria e di tutti. In questo modo non si vede per tutto lo schieramento altro che scudi, e tutti sono al riparo dai dardi nemici per la compattezza della formazione assunta, così salda che sopra di essa si può anche camminare e possono persino andare cavalli e carri, ogniqualvolta i Romani si trovano in luoghi cavi e stretti. Questa dunque è la forma che assume lo schieramento, e ha preso il nome di “Testuggine” per la sua robustezza e per il sicuro riparo che offre. I Romani vi ricorrono in due casi, quando si avvicinano ad una fortezza per conquistarla o quando circondati da ogni parte da arcieri nemici, si inginocchiano tutti contemporaneamente compresi i cavalli che sono stati ammaestrati a piegare le ginocchia e a distendersi per terra. Così fanno credere al nemico di essere sfiniti, quando poi si avvicinano i nemici si alzano all’ improvviso e li annientano».

La stessa descrizione è fornita da Plutarco (“Vite parallele”, Antonio, 45), che aggiunge: «questa disposizione suggerisce l’idea delle tegole di un tetto su cui le frecce scivolano via». Tuttavia notizie sull’uso della testuggine le troviamo anche in Sallustio, Cesare e Livio.

Cesare nel “De bello gallico”, V, 9, 6 riferisce come «i soldati della settima legione, protetti da un tetto di scudi (“testudine facta”) gettato un terrapieno davanti alla fortificazione nemica, conquistarono una posizione che permise loro di avvicinarsi a una foresta tenuta dai Britanni e metterli in fuga».

La tecnica della testuggine non era esclusivamente romana, anche i Galli e i Belgi la praticavano come testimonia un passo del “De bello Gallico”(II, 6, 2): Il metodo di assalto, uguale per i Belgi e i Galli, è il seguente: «gli attaccanti, alzati gli scudi formano la testuggine , si avvicinano, danno fuoco alle porte e scalano il muro».

Anche durante la battaglia di Alesia i Galli attaccarono avvicinandosi in formazioni compatte: «formarono la testuggine e avanzarono» (“De Bello gallico”, VII, 85)

Per tornare all’uscita stravagante di Di Maio in continuo affanno per la perdita di consensi a favore dell’uomo forte della coalizione, il “truce” Salvini, avremmo un consiglio da offrirgli. Se proprio vuole attirare l’attenzione ricorrendo alla storia romana citi l’imperatore filosofo, guerriero e legislatore, Marco Aurelio, uno dei personaggi più affascinanti della storia antica il cui merito principale fu quello di aver agito sempre con grande equilibrio e aver trattato il popolo con giustizia e liberalità. Di Maio che nel Contratto di governo ha fissato norme per una “pace fiscale” (eufemismo per non nominare l’odiosa parola “condono”) potrebbe stupire i suoi fans ricordando alcuni provvedimenti - presi da Marco Aurelio - assai favorevoli per i cittadini indebitati con il fisco: nel 178 cancellò tutti i debiti che i contribuenti avevano contratto con lo stato nell’arco dei 46 anni precedenti. Per sancire questo suo atto con un gesto piuttosto scenografico fece bruciare nel Foro tutti i documenti che riguardavano tali debiti (Cassio Dione, “Storia romana”, LXXII, 32). Poiché dovette sostenere lunghe guerre, per non dissanguare i contribuenti vendette all’asta i tesori del palazzo imperiale. Tutelò i cittadini di fronte agli esattori delle tasse che vennero rigidamente controllati affinché non pretendessero più del dovuto.

Tra i suoi “Pensieri” che scrisse in greco ispirandosi alla filosofia stoica, uno può interessare chi detiene posizioni di potere. Di fronte alle inevitabili critiche e maldicenze che riceverà, non dovrà preoccuparsi «perché nessuna offesa potrà scalfire il suo vero io» (IV, 7). Anche quando sarà oggetto di gravi offese, non dovrà adirarsi perché «colui che offende è mosso da una sbagliata considerazione del bene e del male, quindi non va odiato ma compatito» (VII, 26).

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