di Leonardo Caponi

 

   L’Umbria cesserà di esistere come Regione e sarà accorpata, o annessa, a qualcun’altra? La cosa che più impressiona degli scritti che vari commentatori o uomini politici locali hanno dedicato all’argomento è che, quasi tutti, lo danno per scontato. Tant’è che quegli stessi scritti si affannano a suggerire, di fronte alla ineluttabilità dell’evento, quale sia il modo migliore per “viverlo”, per impedire, ai territori, traumi economici e ottenere, come si dice, il “miglior posizionamento” nella prospettiva futura. E’ realistico questo modo di pensare? Probabilmente si, perché la piega che hanno preso le riforme istituzionali nel nostro Paese spinge in quella direzione e il fatto stesso che uno dei più citati progetti di legge sull’argomento sia firmato da autorevoli esponenti del maggior partito di governo (e di forza elettorale) è significativo. E’ anche giusto? Beh, qui il discorso cambia sostanzialmente.

   L’Istituzione Regione è stato un elemento decisivo della modernizzazione e dello sviluppo dell’Umbria. Essa ha dato tutto, o gran parte, di quel che c’è stato e c’è. In termini di investimenti e risorse finanziarie, coesione sociale, crescita culturale e civile, financo di attrazione di “cervelli” o che dir si voglia professionalità esterne, che, soprattutto nella prima fase della sua vita, hanno colmato un vuoto e contribuito al decollo successivo. Il fatto che il bilancio di oltre quaranta anni possa presentare elementi in chiaroscuro, come una identità comune insufficiente o un “campanilismo” di ritorno (fenomeni sui quali la politica, negli ultimi tre lustri, ha responsabilità sovrane) non può offuscare il fatto che la Regione, nella stagione d’oro delle “autonomie locali”, sia stato il motore principale che ha consentito di completare la trasformazione di una regione poverissima e arretrata, come era uscita dalla guerra, in una delle più civili d’Italia. Molti di questi motivi permangono ancora e questa considerazione sarebbe di per se essere sufficiente a sconsigliare una prospettiva di soppressione, o addirittura di eutanasia, nella quale l’Umbria risulterebbe probabilmente smembrata o comunque assorbita in posizione subalterna da altri.

   Ma, al di là e più di questo, ciò che non convince e offusca la credibilità degli annunciati progetti di riforma degli ambiti regionali è, come dire?, il loro “movente”. La razionalizzazione e i risparmi non c’entrano niente. Non si capisce perché in un numero diverso, fosse pure di cinque, le Regioni  dovrebbero funzionare meglio di quelle attuali. In Italia, ogni accorpamento di strutture finisce con l’aumento dei costi complessivi, della burocrazia, della corruzione. Tanto varrebbe, allora, sopprimerle del tutto. Le Regioni sono oggi molto impopolari perché sembrano diventate sedi elettive della corruzione politica. Ma a chi verrebbe mai in mente di sopprimere le banche perché subiscono rapine?! Il problema, con tutta evidenza, non è quello di rinunciare alle istituzioni democratiche, ai partiti e alla politica, ma “ripulirli” dal marcio che c’è.

   Il movente è un altro e si iscrive in quella dilagante teoria o mania dei tagli che ha pervaso l’Italia. I tagli e il mercato sono divenute le iconografie del nostro tempo. Gli uni sono funzionali all’altro. Tagliare tutto ciò che sommariamente è etichettato come “pubblico” (la spesa dello Stato, le Istituzioni della democrazia, i servizi, le pensioni, i diritti e così via dicendo), serve a rastrellare risorse per darle al “mercato”. Ora, quello che non funziona in questa teoria e che la rende razionalmente insopportabile, è che le cose vanno sempre peggio. C’è da anni una crisi che il mercato, dopo averla provocata, non riesce a risolvere, pur continuando a divorare enormi ricchezze. Quante Umbrie bisognerà tagliare per compensare i mille miliardi di dollari che le borse hanno “bruciato” da quando il petrolio costa meno?

 

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