L'Umbria contendibile

di Leonardo Caponi
PERUGIA - I risultati delle ultime elezioni amministrative confermano la grande mutazione del sistema politico italiano. Un aspetto riguarda il modo di essere e la natura dei partiti. Prendiamo, a puro titolo di esempio poiché il dato è generalizzabile, il numero delle preferenze per i candidati del Pd espresse a Perugia. Esse, nel giro di due legislature, dieci anni, sono più raddoppiate. Calcolate, pressappoco, sullo stesso numero di voti (40mila), erano circa 11mila nel 2004, sono oggi oltre 22mila. Anche senza tener conto che il numero dei candidati si è ridotto, il rapporto preferenze voti passa da una su quattro (ai tempi del Pci il dato era ancora inferiore, sebbene si potessero dare fino a quattro preferenze al Comune) a una su due. Conclusione da trarre: il consenso ad una lista elettorale è sempre meno legata alla sua proposta o offerta politica “globale” e sempre di più dipendente dai consensi che ad essa portano i singoli componenti. Del resto è’ molto in voga, nel mondo politico di oggi, quando si tratta di decidere dell’immissione in lista di un tal candidato, l’espressione, curiosa per chi ha vissuto altri tempi, del: ”quanti voti porta?”. Quando si parla di scomparsa dei partiti e della loro trasformazione in “federazioni” di comitati elettorali dei singoli candidati, si allude proprio a questo. Intendiamoci, nei partiti del centro e della destra, i candidati hanno sempre avuto un ruolo preminente; ma, per la sinistra, è una vera e propria rivoluzione. E’ un bene?, è un male? Qui si possono avere opinioni diverse. Di sicuro un sistema di questo tipo presuppone una sostanziale omologazione di pensiero e programma tra le forze in campo. L’altra cosa oggettiva è che la “personalizzazione”, nata come strumento per ridare credito e vicinanza della politica ai cittadini, si è risolta nel suo esatto contrario e che, oggi, grandi successi politici vengono celebrati in un deserto di partecipazione e con percentuali di voto inferiori alla metà degli aventi diritto. Il Sindaco di una città come Perugia viene eletto da poco più di un quarto degli elettori.
Una forma specifica di personalizzazione è in atto in Umbria nel maggior partito della sinistra, dopo la scomparsa del Pci. Essa ha avuto una base “territoriale”. Il riconoscere i particolarismi e i tanti municipalismi dell’Umbria è stato, per una tutta fase, una condizione di unitarietà ed anche un elemento di forza della Regione. E’ diventata una patologia quando personalità e/o oligarchie locali hanno cominciato a soffiare sul fuoco delle diversità per farne elemento di contrattazione di posizioni di potere o di difesa di sistemi di potere.
L’Umbria è diventata contendibile? E perché si è così trasformata, nel momento in cui più acuta è la crisi nazionale e anche locale del suo antagonista di centro destra? L’Umbria, per decenni simbolo della stabilità (tanto da far gridare all’immobilismo) è diventata, quasi all’improvviso e apparentemente in modo inspiegabile, nel maggior partito che la governa, instabile, conflittuale, rissosa, la Regione delle sorprese o delle possibili sorprese.
La feudalizzazione, a cui si faceva sopra riferimento, ha retto finché è stata sostenuta da una adeguata mole di risorse da distribuire ma ha provocato alfine, come era nelle cose, l’implosione dei gruppi dirigenti. Nei Comuni dove la forza del centro sinistra è comunque esorbitante, il governo locale è passato di mano tra i diversi spezzoni del Pd e di questa coalizione, altrove, si è aperta la strada a Sindaci e Giunte di centro destra.
Sarebbe forse utile che una riflessione nel Pd, piuttosto che da renziani e antirenziani, cominciasse da qui. Servirebbe a dare un senso alla tanto enfatizzata antitesi cambiamento conservazione che, staccata dai contenuti, è una scatola vuota. Ma, soprattutto, ad evitare brutte sorprese tra un anno.

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