di Leonardo Caponi

 

PERUGIA - C’è stato un tempo non lontano nel quale, qualcuno ricorderà, a Perugia si discuteva animatamente dell’”isola felice”. Per la verità, questo termine veniva usato, con intento derisorio, dalle forze politiche di opposizione a Palazzo dei Priori nei confronti di quelle di governo, per contestare l’immagine della città (a loro giudizio ottimistica, in un contesto nazionale presentato come negativo) che queste ultime diffondevano. Al di là delle ragioni in campo e del confronto tra di esse, che elettoralmente erano solite premiare la sinistra, la cosa che si può affermare con obiettiva certezza è che nella cultura e nel senso comune dei perugini, indipendentemente dalla loro opinione politica, era radicata l’idea che, effettivamente, a Perugia si vivesse meglio che altrove e che, particolarmente nel campo della criminalità, nella loro città non potessero accadere “le cose che accadono in altre parti”.

   Probabilmente, in questa condizione di Perugia confluivano più elementi, alcuni di natura per così dire oggettiva, non tutti necessariamente positivi (le dimensioni abitative contenute, il carattere della popolazione, l’isolamento ed una certa “arretratezza” degli assetti dell’economia ecc.), ma altri, indubbiamente, rapportabili a meriti soggettivi, tra i quali la qualità dell’azione amministrativa, degli equilibri (e delle punte di eccellenza) che essa aveva contribuito a creare.

   Un dibattito sull’isola felice, nella Perugia di oggi, sarebbe semplicemente improponibile; negli ultimi tempi (e tempi non brevissimi) la città ha occupato le prime pagine dei giornali per fatti di cronaca nera, grandi o piccoli che siano e tutti possono constatare che a Perugia può ora accadere tutto quello che accade altrove e, forse purtroppo, anche di peggio. Quella certezza dei perugini di un tempo ha lasciato spazio, nell’animo degli abitanti della città di oggi, ad un generale sentimento di irrequietezza e paura, così forti da essere in qualche caso anche superiori al pericolo reale. 

    Ora, l’accusa più forte che una persona con idee progressiste può di questi tempi rivolgere al governo della città ed in generale agli “inquilini” attuali della Sala del Malconsiglio di Palazzo dei Priori (con meritorie eccezioni) è il rifiuto di considerare l’esistenza di una qualsiasi relazione tra i fatti di violenza e l’organizzazione generale della città e dei suoi quartieri, a cominciare dagli assetti urbanistici e dal modo in cui essi si sono strutturati. In questo modo diventa conseguente (altra grave lesione a decenni di cultura progressista e di sinistra) trattare i problemi della sicurezza pubblica come, appunto, “problemi di polizia”, attinenti in maniera prevalente o addirittura esclusiva alla azione repressiva, sulla cui inefficienza o forzata inadeguatezza viene magari comodo “scaricare” le responsabilità. Questa concezione rende, infine, superfluo e inattuale quello che sarebbe invece necessario: un esame e un ripensamento critico sulla città e il suo modo di essere, su quello che è stato e continua ad essere il suo modello di sviluppo, quel modello che ha desertificato il centro, congestionato e stravolto le periferie, producendo, paradossalmente, gli stessi effetti di disgregazione e perdita di identità in realtà così apparentemente diverse.

   Senza questo ripensamento, senza l’ambizione di trovare il modo di “ridare un’anima” a Perugia ed ai suoi quartieri, a cominciare dal centro storico, tutto il resto corre il rischio di essere un  diversivo e la discussione sull’isola felice sarà destinata a rimanere il lontano ricordo di una città che era più piccola ma, forse, migliore di quella di oggi.

 

Pubblicato da il Corriere dell'Umbria

 

 

 

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