di Alfonso Gianni

Ormai persino quelli che hanno votato sempre imprese belliche in Iraq, Siria e Afghanistan, sembrano convinti che la democrazia non si esporta con la guerra. Vedi l'intervista a Enrico Letta su Repubblica di oggi. Naturalmente non li sfiora la necessità di un'autocritica. Ma comunque il senno del poi è meglio di quello del mai. Non basta perciò dire: avevamo ragione noi. Bisogna porsi il problema di cosa fare oggi. Non credo ci si possa affidare alle ragioni della geopolitica e correre al riconoscimento del governo talebano. Nè sperare che quel castello di carta che gli Usa e la Nato hanno fatto passare per nuove istituzioni, possa rimettersi in piedi da solo. Tantomeno si può sperare in una improvvisa conversione dei talebani a forme di governo in qualche modo democratiche. E allora? Nell'immediato sono utili tutte le richieste di corridoi umanitari, di accoglimento e assistenza ai profughi, di mobilitazione mondiale a sostegno dei diritti delle donne in Afghanistan come già hanno detto esponenti dei movimenti femministi e non solo. Ma soprattutto andrebbero ben valutate e raccolte le richieste di sostegno a una possibile resistenza interna a quel paese, come quelle provenienti dal figlio di Massud, non certo con la preparazione di nuovi interventi militari, ma con un movimento internazionale - e internazionalista - che abbia radici popolari e faccia quello che le occupazioni e gli interventi militaei, sovietico prima, americano poi non hanno saputo nè voluto fare: una lotta ideale e pratica, sul terreno della solidarietà, contro l'oscurantismo reazionario demistificandone le pretese liberatorie. Quel movimento mondiale per la pace che ha scritto pagine importanti in questo nuovo secolo ha oggi un nuovo decisivo banco di prova.

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