di Umberto De Giovannangeli

Una sinistra senza ideologia è una entità non solo marginale ma inutile. Una sinistra o è intelligentemente “rivoluzionaria” o non è. Una sinistra che non sia radicalmente contro la guerra è una sinistra contro natura. Parola di Fausto Bertinotti, uno dei “grandi vecchi” della sinistra italiana.

Oggi può esistere una sinistra ambiziosa senza un pensiero forte sul mondo e sui conflitti che lo investono?

“Una delle ragioni della scomparsa di una sinistra alternativa, antagonista nel nostro Paese, attiene a quella che un tempo i nostri padri chiamavano la battaglia delle idee: quella capacità di confronto nella visione generale del mondo e, cosa altrettanto importante, nella delineazione dei modi, delle forme, delle forze con cui superare l’ordine delle cose esistenti. I tratti necessari alla sinistra sono un pensiero forte, una Weltanschauung, una idea generale del mondo, e l’altro tratto essenziale è l’idea e la prassi per trasformare l’ordine delle cose esistenti, dove l’insistenza sulla prassi è perché nella storia migliore a cui apparteniamo, teoria e prassi, quando hanno trovato la saldatura, hanno fatto della forza che volevano rappresentare e organizzare, il movimento operaio, protagonista della Storia. E qui una prima considerazione che so farà sobbalzare qualcuno nella disarmante sinistra del politically correct. Posso azzardare?”

Assolutamente sì. L’Unità è rinata per questo.

“Quello che è necessario è una ideologia. Noi veniamo da una lunga e controversa discussione sull’ideologia. Rifiutata l’ideologia come falsa coscienza, l’eredità migliore della nostra storia sta nella dimensione delle ideologie, che non era affatto una prigione, bensì un campo arato continuamente nel conflitto di classe e nella riflessione teorica su di esso. Questo processo costituente ha trovato la sua forza, quando l’ha avuta, in questo punto fondamentale, che racchiudeva nell’orizzonte complessivo della costruzione della coscienza di sé, sia l’elemento critico analitico sia la capacità di affrontare il tema della trasformazione. Questa dimensione si chiama ideologia. Rifiutata l’ideologia come falsa coscienza, quella che Gramsci imputava alla borghesia, si trattava e si tratta di costruire una ideologia, cioè una precisa e critica interpretazione del mondo, dei rapporti sociali e delle forze motrici. Vale la formula di Marx, quasi incredibile per la sua potenza concentrata, secondo cui la storia delle civiltà è storia di lotta di classe. Questa formula non è per niente come è stata letta dai revisionisti senza immaginazione di futuro, un bignamino. In realtà è la formula più aperta che si possa immaginare”.

Perché?

“Perché è uno sguardo critico sulla storia e sul mondo. Ed è una chiave di accesso al futuro. Da qui occorre ripartire. E bisogna farlo con una idea dell’oltrepassamento necessario”.

In cosa consiste questo “oltrepassamento”?

“La dico così: c’è bisogno di Marx per andare oltre Marx. C’è bisogno di Marx perché di nuovo, come nel suo tempo, quello in cui è stato protagonista, il capitalismo si propone come problema. Un problema così acuto che ci chiede di pensare al rischio della catastrofe. Potremmo discutere a lungo sulla potenza del capitalismo, sulla rivoluzione che ha realizzato in questo quarto di secolo, una rivoluzione che muove dal terreno economico a quello tecnico-scientifico, a quello più direttamente tecnologico, alla formazione delle coscienze, alla mutazione del rapporto tra produzione e consumo, alla trasformazione del rapporto tra produzione, consumo e natura. Una operazione gigantesca con cui il capitalismo ha saputo trarre dalla crisi la vitalità per uscirne, con la “distruzione creativa”, per dirla con Schopenhauer, anche sull’abbrivio costituto dal fallimento della storia del socialismo reale a Est e dalla sconfitta del movimento operaio ad Ovest. Lasciami dire che su questo binomio dovremmo ragionare. Si tratta di fenomeni diversi che vengono compattati con una operazione arbitraria di demonizzazione e di cancellazione di una storia. In realtà quel binomio ha costituito nel Novecento una delle leve fondamentali della storia. Liberatosi del suo avversario storico, il capitalismo dispiega tutta la sua potenza. Una potenza che ci fa riflettere su due assi”.

Quali?

“Uno creativo e l’altro distruttivo. Quello creativo è la costruzione di un mondo nuovo. È una rivoluzione capitalistica reale ma regressiva. Tanto forte sul terreno economico, quanto aggressiva sul terreno dei modelli di civiltà, dei rapporti umani, dei rapporti con la natura. Tant’è che questa tenaglia ci conduce al ridosso della catastrofe. Una delle formule più azzeccate di questi nostri tempi è stata quella di Occupy Wall Street: “Noi 99%, voi 1%”. Questa formula, estremamente significativa e radicalmente dirompente, esige l’oltrepassamento di Marx. Marx si presenta come il maggiore critico del capitalismo individuato come problema, da lì si riparte, ma dentro quel quadro non ci si può più fermare , come era stato nel Novecento, perché l’oltrepassamento è necessario per raggiungere quel 99%. Tenendo conto del fatto, questo sì epocale, che accanto al conflitto di classe e con la stessa dignità di quel conflitto, nasce il tema proposto dal femminismo, cioè quello della differenza di genere, di una critica della società patriarcale potente quanto quella nei confronti della società capitalistica”.

La seconda questione?

“La natura. Che richiama a quella formula stupenda che usa Walter Benjamin: per fare la rivoluzione, diversamente da quello che credono i progressisti, non si tratta di accelerare la velocità del treno ma di tirare il freno e scendere. Questa ipotesi confligge totalmente con l’idea di progresso che è stata anche dentro la storia del movimento operaio. Questa cosa che si è venuta individuando, ha avuto negli ultimi anni una progressione fortissima, sia perché si è avvicinata la catastrofe sia perché i tre grandi portati critici del capitalismo contemporaneo – lotta di classe, femminismo, ecologismo – richiedono una vera e propria impresa culturale per essere connessi teoricamente, come è necessario, e al tempo stesso esigono una revisione dell’idea stessa di movimento e di conflitto per potere far sì che queste tre entità diano vita ad un popolo. Non solo ad una classe, ma ad un popolo che si ribella. Uso a ragione questo termine, ribellione, piuttosto che quello, teoricamente più compiuto, di rivoluzione. Se si avvicina la catastrofe, questo è il tempo dell’apocalisse …”.

Bertinotti profeta di sventura?

“Assolutamente no. Nella vulgata l’apocalisse è intesa come disastro immane. Va invece intesa come il tempo della grande scelta. Il tempo dell’aut aut. Qui ci porta questo capitalismo. Le forze critiche che pure spuntano da mille rivoli della società, non hanno né un impianto teorico-culturale, l’ideologia, all’altezza di questa sfida né un movimento. Uso a proposito il termine movimento perché sono convinto che tra gli oltrepassamenti necessari c’è quello di guardare con un occhio diverso le lotte. Le lotte sociali, quelle sui diritti … Le lotte. Se noi guardiamo l’ultima stagione, vediamo che ovunque i movimenti hanno assunto connotati nazionali, capaci però di parlare al mondo, questi elementi si sono combinati in maniera inedita”.

Dove è avvenuta “commistione” fruttuosa?

“Stati Uniti d’America. La rivolta parte, come è accaduto spesso negli Usa, parte contro un evento razzista. Diventa potente, il Black Lives Matter, una vera forza emergente che attraversa tutta la società. Parallelamente c’è un movimento come quello di Me Too, che mette in discussione il sessismo maschilista in maniera così radicale, potente, che trascina anche altre versanti critici di ogni genere. E in questo quadro riprende il conflitto operaio in maniera molto consistente. Sono segmenti di movimenti diversi che confluiscono e concorrono alla sconfitta di Trump nelle ultime elezioni presidenziali. Non è questa, a mio avviso, la cosa più importante, ma lo segnalo per dire che persino su questo terreno, che per me è ultimo, il tema dominante non è quello politicista delle alleanze, delle geografie politiche, ma invece è quello della ricostruzione delle fondamenta. E quando queste fondamenta, pur incompiute, si affacciano, già cambiano il campo”.

In Europa vede qualcosa di simile?

“Altro esempio è la Francia. La Francia vede l’affermazione della rivolta. Una rivolta popolare. Non ha un programma precedente, non ha una guida politica-partitica consolidata, tutte le forze entrano pariteticamente nel movimento e poi ne escono, si confrontano … Sindacati, partiti, ma il “principe” è il movimento. Un movimento ascendente che realizza ciò che fino al giorno prima era considerato impossibile. Ed è considerato ancora oggi impossibile da noi, che vista la destrutturazione del mercato del lavoro, vista la diffusione dei lavori poveri e precari, vista la impossibilità di costruire una unità forte di tutto il mondo del lavoro, non ci sarebbe più spazio per la lotta di classe. La smentita non è di qualche pensatore critico. La smentita di questa tesi è determinata dal più grande movimento che sia conosciuto in Europa negli ultimi anni. Dodici scioperi generali consecutivi, Parigi in stato d’assedio. Un assedio da forze interne, da questo movimento che la riempie, la invade, perfino la offende quando si presenta con i segni del potere. Una cosa enorme. E non mi si dica che la questione viene chiusa con la decisione di Macron che peraltro per realizzarsi deve ricorrere a quel famigerato articolo 39 bis che esclude la possibilità del Parlamento di decidere sulle leggi. Per varare la legge contro il movimento, il governo deve scegliere la soluzione autoritaria, deve mettere fuori campo la democrazia rappresentativa. E fin qui non abbiamo parlato di quell’altro campo che rischia persino di diventare soverchiante …”.

Di quale campo si tratta?

“La guerra. Anche qui, io sento un deficit di analisi, un deficit di passione politica, di mobilitazione e da ultimo un deficit della politica. Non dico che sia il frutto di questo capitalismo, il portato necessario, ma questa guerra non può essere se non dentro questo capitalismo. Dentro la sua ultima configurazione generale, la globalizzazione capitalistica, i suoi venti di crisi che non l’abbattono ma la costringono a riposizionarsi. Per esempio facendo i conti con la rinascita di politiche imperiali. Dagli Stati Uniti d’ America alla Russia di Putin. Politiche imperiali che ridisegnano la geografia politica del mondo per grandi aeree. Questo ridisegno, la rinascita di elementi imperiali, di nazioni che si vogliono erigere a potenze a scapito di altre, in un combinato disposto con le economie di rapina, penso all’Africa, determinano una propensione alla guerra. Incredibilmente ma non tanto, questa propensione alla guerra non viene individuata da una qualsiasi forza politica, da un qualsiasi regime politico. Viene individuata dal Papa. Che parla in anticipo della terza guerra mondiale a pezzi. Esattamente il quadro in cui ci troviamo. Di fronte al quale non ci sono che risposte radicali”.

Quali?

“La pace contro la guerra. Con tutto il corollario che ne discende, fino al no alle armi. Come possiamo essere decaduti dalla forza dell’Articolo 11 della Costituzione repubblicana che ripudia la guerra, alla complicità sistematica dei nostri governi con la guerra in Ucraina! Come può essere accaduta questa rovina che ancora ci pesa addosso. Io penso che questa questione bisogna riprenderla, sia dal basso, cioè dalla costruzione di una cultura della pace. Ve ne sono molti segni sparsi nel territorio. Sono meno forti le manifestazioni ma sono più diffuse, con le realtà di cooperazione, di costruzione di comunità, che chiedono pace, il rispetto dell’altro, e che intervengono anche nelle vicende drammatiche che riguardano la barbarie disumana con cui vengono fronteggiati i processi migratori”.

Questo dal basso. E dall’alto?

“La necessità di rompere lo schema. Anche qui: è possibile che sia più capace di rompere lo schema una persona indubbiamente intelligente, ma ambasciatore di lungo corso come Sergio Romano piuttosto che una qualsiasi forza progressista? Si vede lucidamente che la Nato è cosa di cui disfarsi. Per due ragioni. Perché concorre alla guerra, e quindi ti devi sottrarre, e, l’altra ragione, perché oltre a concorrere alla guerra, concorre ad annichilire ogni autonomia dell’Europa. L’Europa per potersi riguadagnare uno spazio nel mondo, oltre a mettere in discussione il suo modello di sviluppo e rispondere alle domande che questi movimenti propongono, deve prendere atto che non può vivere più nel quadro della Nato. Quando la Nato ha smarrito, come rimarca lucidamente Romano, la sua funzione storica, cioè quella di essere gendarme nella guerra fredda, non ha altra funzione che quella di essere uno strumento imperiale degli Stati Uniti d’America, per trattenere con sé, come sudditi, una parte dei paesi del mondo. Tra gli elementi che richiedono la rinascita di una forza di alternativa, c’è il coraggio delle rotture. Rispetto alla rivolta sul terreno sociale, e lo dico politicamente su questi terreni: mettere in discussione la Nato e riaprire un discorso per una Europa neutrale. Lo so che affermare questo fa scandalo, ma non me ne importa niente. Anzi, rincorrilo lo scandalo. Perché senza di questo, non ritroverai la tua vita. Dico le forze del cambiamento. Se rimani imprigionato da un lato nel senso comune, e dall’altro nella politique politicienne, tu sei condannato ad essere, come sei, irrilevante. Devi produrre scandalo".

Fonte: l'Unità

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