“Cercherò mi sono sempre detta cercherò… troverai, mi hanno sempre detto troverai…”: con questi due versi Gianna Nannini comincia il rock scatenato di America, la canzone che gli dette la prima grande notorietà. Si riferiscono, come spiegò la cantante, a tuttaltro che non sia la politica, ma sembrano scritti apposta per i dirigenti ex comunisti del Pd che per molto tempo hanno cercato l’America e finalmente, anche se paradossalmente nella fase del loro declino (forse questa ne è stata la condizione), l’hanno trovata. Lo dice esplicitamente Walter Veltroni che, in un intervista al Corriere della Sera, rivendica il coronamento del suo sogno.

    L’americanizzazione del sistema politico italiano è ormai incipiente o, forse, compiutamente avvenuta. Le “europee” dell’altra domenica segnano, da questo punto di vista, indubbiamente una svolta, un vero e proprio cambiamento di epoca. Almeno al livello, si sarebbe detto un tempo, della sovrastruttura politico elettorale, la lunga, apparentemente interminabile, “transizione” italiana è compiuta. Che vuol dire americanizzazione? Vuol dire una forma di rappresentanza, dominata da una forte personalizzazione,  nella quale vota circa la metà degli aventi diritto, nella quale esiste una spoliticizzazione di massa, nella quale sono scomparsi i grandi partiti identitari, sostituiti da federazioni di comitati elettorali, nella quale infine diventa norma l’alternanza al governo tra aggregazioni politiche diverse che si muovono nell’ambito di una comune “cornice” economico istituzionale. Tant’è che si può in maniera fondata affermare che la causa principale della scarsa partecipazione al voto risiede nel fatto che una buona fetta di elettorato non trova, nel mercato della offerta politica (in genere rappresentato da due partiti), la proposta che reputa vantaggiosa alla propria condizione.

   L’Umbria, la città di Perugia, sono lo specchio plastico di questa chiave di lettura. Guardate la differenza “abissale” che c’è nel consenso elettorale di uno stesso partito, il Pd, tra il voto europeo e quello amministrativo. Undicimila voti nella sola Perugia, un altro piccolo partito, voti tali da annullare (altra considerazione degna di essere indagata) la tradizione, invalsa e consolidatasi nei lustri più recenti, in base alla quale il maggior partito della sinistra prende, in Umbria, più voti alle amministrative che alle “politiche”.  Qual è il dato oggi, per così dire, “strutturale”? Probabilmente non esiste più, poiché, come detto, il consenso oscilla di volta in volta, non più vincolato da un legame in qualche misura ideologico o di fedeltà.

   Si deve avere una visione critica dello “straordinario” successo di Renzi: si può sostenere che in termini di voti assoluti esso è inferiore ai livelli già raggiunti dal Pd; che è costruito su un  deserto di partecipazione alla politica; che è frutto di una sovraesposizione mediatica, probabilmente senza precedenti, di un sostegno unanime dei “poteri forti”, di abili mosse elettoralistiche.

    Bisogna tuttavia riconoscere che il nascente “renzismo” ha colto una speranza diffusa nei milioni di elettori che l’hanno votato, un anelito si potrebbe dire, al rimuovere una mal sopportata e troppo lunga stagnazione, al fare qualcosa nella direzione che la cultura e il senso comune indicano, all’unisono o quasi, come necessaria. E’ questo il “cambiamento”? Ecco, su questo c’è molto da discutere; perché, un cambiamento che non si propone di mettere concretamente in discussione i capisaldi della politica economica europea e italiana, che cambiamento è? 

 

Leonardo Caponi

 

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