di Fausto Bertinotti.

La figura di Enrico Berlinguer continua a costituire un prisma attraverso il quale leggere la storia del Paese nel secondo dopoguerra e, in essa, le vicende della sinistra italiana. Per questo, anche un anniversario come il centenario della sua nascita fuoriesce dal canone celebrativo e ci propone diversi spaccati della società italiana, mentre riaccende a sinistra, per quel che è possibile nella sua radicale attuale crisi, antiche controversie. La polarizzazione di quest’ultimo ciclo politico del Paese, tra il basso e l’alto della società, ne esce confermato anche in questo caso. Nel sentire comune popolare, il ricordo di Berlinguer si impasta con la nostalgia per un tempo nel quale la politica era parte della vita stessa delle persone e delle comunità.
Coloro che lo ricordano e per alcune intere generazioni, restano in tanti, lo ricordano come uno degli ultimi grandi leader che il Paese ha avuto, leader che erano l’espressione di una politica forte e di una serietà nell’impegno e nella direzione politica che erano l’espressione di una nobiltà nella presenza pubblica e insieme di un’umanità di fondo. La comune considerazione che mescola per il politico la stima e l’affetto per la persona attraversa gli schieramenti partitici e l’opinione popolare. In essa, il popolo di sinistra prende poi una colorazione particolare, sua specifica. Porta con sé, allora, il tempo delle grandi conquiste sociali, civili e culturali, il tempo nel quale si è realizzato quel che è stato descritto nella letteratura politica come “il caso italiano” perché in esso si è determinato, per un intero decennio, un rapporto virtuoso tra il conflitto di classe, il conflitto sociale, l’emergere di nuovi bisogni e di nuovi diritti e un processo di riforme che hanno cambiato il Paese, dallo Statuto dei diritti dei lavoratori, all’ascesa del salario, alla riforma delle pensioni, alla sanità pubblica, alla conquista delle leggi sul divorzio e sull’aborto.
Sempre dentro quello stesso mondo popolare, quello del Pci, poteva cantare allora, in quel tempo: “Non c’è lotta, non c’è conquista” senza il grande Partito comunista. Anche chi sentiva un eccesso di patriottismo di partito nello slogan e di retorica in quella formula non può non vedere il nesso tra quella stagione sociale e politica e quel che è rimasto della memoria di Berlinguer, in quel popolo. Anche nella memoria passa oggi la linea di divisione tra l’alto e il basso del Paese. Nella società politica la memoria di Berlinguer divide, ed è raro che si renda giustizia. In chi gli fu avversario, specie in chi si autodefinisce riformista, il tempo non solo non ne ha mitigato l’avversione, ma spesso ha indotto ad attribuire a lui e alle sue scelte politiche la causa di una drammatica uscita di scena dei partiti riformisti, come quella della Democrazia cristiana, la cui ragione andrebbe invece ricercata nella propria vicenda storico-politica. Ma anche tra chi si definisce oggi riformista e tra chi aveva militato anche con ruoli dirigenti nel Pci di Berlinguer, il giudizio sul leader comunista, seppur per ragione opposte a queste ultime, risulta spesso inattendibile. Nella sua beatificazione, infatti, scompaiono non solo gli spigoli che hanno reso caratteristica la sua personalità politica, ma scompare proprio quel nucleo rivoluzionario che ha reso legittima e costante la sua rivendicazione di essere comunisti.
La risposta alla domanda chi e che cosa è stato Enrico Berlinguer va dunque ricercata rifiutando sia l’infondata demonizzazione che una strumentale beatificazione. Credo che la cifra più rispondente alla sua presenza così significativa sulla scena politica e nella storia del Movimento operaio del secondo dopoguerra sia da cercare in un canone oggi desueto quanto, in altri tempi, potente: l’ortodossia. Berlinguer è stato, io credo, l’ultimo seppur creativo custode di una specifica ortodossia. Non già la classica ortodossia comunista, quella che prende le mosse dalla rivoluzione di ottobre, quella marx-leninista, cioè quell’ideologia che ha segnato il canone dell’intera politica nella storia del Movimento operaio dopo la rivoluzione di ottobre. Invece di quella, si tratta per Berlinguer di un’inedita e originale ortodossia, quella che poteva affondare le sue radici nel partito nuovo di Togliatti e il cui “rinnovamento nella continuità” ha rappresentato l’ispirazione centrale ed è stata pensata e praticata come il fondamento della centralità della politica stessa e del ruolo del partito, del Partito comunista italiano. Di nuovo, nella storia contemporanea di questo partito, uno slogan ha riassunto, e non casualmente proprio uno slogan, un modo di essere, ha illustrato un’ispirazione, ha dato conto di una storia condivisa e di una storia in essere. Lo slogan in questo caso è quello noto: “Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer.” Ogni svolta, ogni scarto, ogni contraddizione viene sciolta così in una storia condivisa che i suoi dirigenti illustrano nella contiguità fino a investire il simbolico, l’immaginario.
Quella storia ha una meta che viene sempre confermata e un soggetto storico per conquistarla, sul quali si fonda anche quest’ultima ortodossia. La meta è il socialismo, cioè il superamento della società capitalistica, il soggetto è quel popolo che si costruisce nella lotta di classe, nell’azione politica, nella costruzione della cultura, in una tensione per l’egemonia e per la trasformazione della società. Nella costruzione di Berlinguer nessun gradualismo, nessuna svolta, nessuna manovra tattica quandanche tutte considerate necessarie e persino da mettere a valore possono sostituirsi alla meta. Il mondo di Berlinguer non esiste senza la Gerusalemme, chi lo vorrebbe arruolare tra i riformisti di questi nostri opachi tempi se ne faccia una ragione. La Gerusalemme può essere rimandata, anzi secondo quel canone, improntata anche al realismo politico, doveva essere rimandata, non essendoci le condizioni storiche per la sua conquista immediata, ma rimandata per essere preservata. Senza Gerusalemme, non c’è solo la morte della politica, della politica come prassi autonoma, come prassi non dipendente dal sistema capitalistico dal potere. Senza Gerusalemme c’è solo la fine della storia del Movimento operaio e della sua ambizione.
Non è un vezzo il sistematico rifiuto del Segretario del Pci di dirsi riformista, il rifiuto di usare quel riferimento politico, oggi così diffuso. L’uso dell’autodefinizione di riformatori da parte dei comunisti e non solo di loro a sinistra, anziché la definizione di riformisti, indica uno spartiacque. Persino nella battuta di Berlinguer: “I comunisti sono conservatori e rivoluzionari”, c’è quel nucleo di verità che consiste nel rifiutare l’approdo socialdemocratico. Torna di nuovo il canone di questa specifica ortodossia, quel rifiuto viene da lontano ma viene sempre rinnovato. Ci aveva già pensato Togliatti quando sostenne, pur senza successo, la candidatura del leader socialista Pietro Nenni a primo presidente del Consiglio della repubblica italiana. Ci avevano pensato comunisti e socialisti, da Nenni a Lombardi, nell’aspra condanna e nel rifiuto della svolta di Bad-Godesberg, quello della socialdemocrazia tedesca. Lo confermerà Berlinguer quando dirà solennemente in un difficile comitato centrale: “Non diventeremo mai socialdemocratici”.
Nel ponte tra la Gerusalemme e il popolo c’è la radice dell’ultima ortodossia, quella di Enrico Berlinguer. Ancora, anche per questo, si può partire da Togliatti. Nel primo numero di Rinascita settimanale, era il 1962, egli fa un bilancio di vent’anni di lotte politiche. Lo avrebbe potuto fare allo stesso modo per suoi anni Berlinguer. Scriveva Togliatti: “Sono vent’anni che si combatte in Italia. Vent’anni che due forze avverse, l’una di progresso e di rivoluzione, l’altra di conservazione e reazione, si affrontano e si misurano in un conflitto che ha avuto diverse fasi, nessuna delle quali però si è conclusa in un modo che potesse significare il sopravvento definitivo dell’uno o dell’altro dei contendenti”. Togliatti infine così conclude: “Da questo dato di fatto parte e sopra esso si fonda tutta la situazione del nostro Paese ed è un dato che non muta, che conserva tutto il suo valore, nonostante le trasformazioni profonde che la situazione stessa subisce”. Berlinguer eredita questa lettura del Paese e in quel suo tempo che vede cambiare nel profondo e radicalmente nel Paese si impegna a tenere la barra diritta della ricerca di un’altra società, evitando sistematicamente la rottura, ma riprendendo la sfida del balzo in avanti per assumere la gradualità del cambiamento, la difesa del quadro demografico, senza rinunciare alla meta.
Così Berlinguer colloca il Pci accanto ai movimenti della grande riscossa operaia e studentesca aperta dal biennio ’68-’69, ma non ne assume mai né le domande più radicali, né le esperienze contestatrici, fino al drammatico errore di interpretazione sul ‘77. Berlinguer costruisce il distacco dall’Urss costantemente, in una progressione, ma non rompe quel legame con uno strappo neppure quando si rivelerebbe così necessario come a Praga. Nella politica di Berlinguer, tanto la politica del compromesso storico, fino al sostegno alla cattiva esperienza del governo di unità nazionale, ma anche quando con coraggio e lucidità di fronte al delinearsi del rovesciamento del conflitto di classe e al prendere corpo nella politica anche delle forze di sinistra, della logica delle compatibilità col mercato e della subalternità al sistema, Berlinguer scopre la radice di classe per un nuovo futuro della politica, quasi un nuovo inizio. Dai trentacinque giorni alla Fiat allo scontro sulla Scala mobile, Berlinguer si riavvia a rieleggere la politica dalle fondamenta, sulla contesa di classe.
Conta niente che chi scrive veda in quest’ultimo Berlinguer il leader di un partito operaio che cerca la via per evitare sì la sconfitta, ma soprattutto e peggio di questa l’integrazione subalterna del partito nel sistema, l’abbandono della Gerusalemme. Conta di più cercare di capire come e perché ci fosse un filo conduttore che connetteva svolte, strappi e anche scelte politiche tra loro per natura così diverse, come quelle che abbiamo indicato, un filo conduttore da cercare di cogliere nella sua realtà e nel suo investimento. Il filo di Berlinguer. Per parte mia, cercherei questo filo conduttore nella sua nuova lettura di un’ortodossia considerata necessaria per la vita del partito di massa.

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