di Fausto Bertinotti

Si va verso il secondo turno delle amministrative che hanno occupato la politica fin qui. Nel primo turno è accaduto un fatto rilevante, si è rivelato un altro pesante strappo al già lacerato tessuto della nostra democrazia rappresentativa con il rifiuto del diritto al voto di una parte molto importante della popolazione. La politica, come le scimmiette, è stata cieca, sorda e muta. A nulla sono valse anche le sollecitazioni di più di uno tra i commentatori. La politica istituzionale prosegue a fari spenti verso il nuovo appuntamento, sequestrata dalla contesa tutta al suo interno, come in una sfera separata dalla società. Eppure quello che è accaduto pesa su di essa come un macigno. Quasi la maggioranza degli elettori ha scelto di non esprimere la sua volontà nel voto sugli amministratori di città e regioni.

È un risultato gigantesco che non capisco come non sia stato preso nella dovuta considerazione dalla politica nel suo complesso e dalle istituzioni democratiche. Perché esso non segnala soltanto una condizione di crisi della politica, quanto una situazione di estrema precarietà della democrazia e un’allarmante fragilità del tessuto civile indotta da una crisi sociale senza soluzione. Siamo di fronte all’affermazione, come si diceva un tempo, della democrazia esercitata con i piedi, nel significato degli elettori che fuggono dalle urne. Questo, del resto, non è altro che il compimento di un processo avviato da tempo, iniziato con la crisi dei grandi partiti, che costituivano l’ossatura della democrazia partecipata e che erano agenzie di formazione della classe dirigente, luoghi di confronto e conflitto tra visioni diverse della società. La loro fine ha lasciato il campo a uno scontro politico senza progetti e senza programmi, prima tra il berlusconismo e l’antiberlusconismo, poi col protagonismo di una certa parte della magistratura e infine con il prevalere dei populismi come replica speculare del governativismo affermatosi. La fase segnata dall’emergenza da covid ha rappresentato la lente di ingrandimento di questa involuzione che ha condotto alla sublimazione del teorema: il governo è tutto, il resto è niente.

Se non che, il resto è proprio rappresentato dai cittadini, considerati invece come oggetti e non come i protagonisti della dialettica democratica. Sorge così la domanda: perché andare a votare in queste condizioni? La politica è scelta. Quando si giunge alla convinzione che scegliere è inutile, la politica perde ogni attrattiva, si riduce a coazione a ripetere di vecchie e stanche formule. Intendiamoci, anche in questo secondo turno, e in particolare in alcune città come Roma, la contesa appare a noi assai importante, capace di conseguenze di rilievo nella vita della città, mentre minacciosi si alzano venti inquietanti come quelli dell’inaudita aggressione alla sede della Cgil. Ma anche questa contraddizione tra l’importanza oggettiva di un voto, che chiederebbe perciò di schierarsi con decisione, e una diversa percezione da parte di tanta parte del popolo parla di un’espropriazione di fatto. Per fortuna della rappresentanza politico-istituzionale, il popolo non può direttamente accedere alla mozione di sfiducia, altrimenti proprio questa sarebbe uscita dalle urne delle recenti elezioni comunali.

 Articolo tratto da - il Riformista

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