di Armando Petrini* (Su “Liberazione” di oggi 2 gennaio)
La vicenda di Mirafiori è destinata a fare da spartiacque fra un prima e un dopo. In certo qual modo è anche auspicabile che sia così, dal momento che una regressione così violenta è utile sia accompagnata da elementi di chiarezza piuttosto che di ulteriore confusione. La chiarezza può generare con il tempo la reazione necessaria (sociale, culturale, politica), la confusione rischia solo di produrre ulteriori peggioramenti della situazione.
Tre nodi oggi vengono al pettine. Il primo riguarda il Governo. Questo è un Governo solo apparentemente “assente”. L’assenza coincide in realtà con una presenza molto forte e ingombrante di chi è, nei fatti, delegato ad agire: in questo caso Marchionne. E’ vero che Marchionne si muove in presenza di un Berlusconi fortemente indebolito, ma è altrettanto vero che la debolezza di Berlusconi è in certo qual modo la condizione stessa di governo della destra, che, ben più scaltra di tanto pensiero sedicente “radicale” in voga fino a pochi anni fa sulla fine dello “stato-nazione”, sa bene che è proprio a partire dall’occupazione dello stato che le politiche neoliberiste possono dispiegarsi con maggior facilità ed efficacia. Non siamo in presenza di un governo Berlusconi insidiato da Marchionne, piuttosto di un governo Berlusconi-Marchionne: la debolezza del primo, ancor più che un limite nell’efficacia dell’azione, finisce paradossalmente per corroborarla.
Il secondo nodo riguarda il Partito Democratico. Di fronte a un accordo-capestro, che fa strame delle leggi e della costituzione, drammaticamente peggiorativo delle condizioni di lavoro e di vita degli operai, imposto da un imprenditore che ha in mente –come ripete da tempo Luciano Gallino- l’americanizzazione delle relazioni sindacali (e dunque la cancellazione, di fatto, del sindacato) e che in nome della competitività guadagna 500 volte quello che guadagnano i suoi operai, di fronte a tutto questo il Partito Democratico non si assesta più nemmeno sull’equidistanza (posizione già indifendibile per un partito che assume ancora al suo interno l’eredità del PCI) ma direttamente sull’appoggio a Marchionne. Si tratta di un vero e proprio punto di non ritorno. Il PD è un partito ormai definitivamente, irrimediabilmente sganciato dalla sua eredità di sinistra. Lo è da un punto di vista strategico, pur mantenendo come sappiamo alcuni legami, soprattutto nel suo corpo militante, con quella tradizione. L’opzione strategica è però chiarissima, e di questo va preso atto.
Il terzo riguarda la nostra prospettiva. Alla sinistra tutta (a noi e a Sel in particolare) si apre un campo d’azione, lasciato scoperto dal PD, assai vasto. Un campo che dobbiamo iniziare a coprire subito: ogni tentennamento rischia di vanificare le potenzialità che si aprono. Due cose non sono più rinviabili: una politica realmente unitaria a sinistra e la conseguente prefigurazione di un polo (della sinistra) che sappia dialogare in autonomia con le altre forze politiche, a partire proprio dal PD. Non è più il momento di temporeggiare. A partire dalle iniziative messe in campo in questi giorni a sostegno della FIOM è auspicabile che arrivi alla politica una richiesta forte, non eludibile, di costruire momenti unitari, ciascuno facendo un piccolo passo indietro, con l’obiettivo di aggregare un polo della sinistra aperto, plurale (che comprenda tutte le culture politiche oggi presenti), in grado di dar vita a una sinistra degna di questo nome, ambiziosa e non minoritaria (come giustamente vuole Vendola), liberata dai “nuovismi” liquidazionisti (come giustamente vogliamo noi). Errori a sinistra ne sono stati fatti molti. Ne abbiamo fatti noi e ne ha fatti Sel. Ora serve coraggio. Gesti forti, proposte vere. Il tempo dei tatticismi è finito con la firma per una “new-co” e i lavoratori, se non ce ne fossimo accorti, ci guardano con occhi severi.
*segretario regionale piemonte Prc
 

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